Teodicea: in cerca del drago

Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502.

Una usanza medievale prevedeva di graffiare con le dita, in corrispondenza degli occhi, le immagini raffiguranti il male, con particolare riferimento al drago. Si pensava che bucare gli occhi, mutilare in qualche modo quelle immagini invise, fosse sufficiente per depotenziare la portata negativa che si temeva fosse in esse depositata. Quell’antico gesto rischia di reiterarsi anche oggi ogni volta che ci neghiamo la possibilità di vedere il male nella realtà delle sue multiple articolazioni. Per la coscienza pensante il problema del male diviene di nuovo proponibile nella misura in cui, dopo aver deciso di ripartire dall’integrale visione del drago, decidiamo di farci responsabilmente carico di ciò che la visione stessa saprà restituirci. Parte da questa premessa, un viaggio a tappe nella teodicea di Leibniz, il filosofo che nel modo più sistematico si pose il problema di rendere compatibile l’esistenza di Dio con la presenza del male nel mondo.

 

Prima tappa

Non c’è teodicea senza filosofia, non c’è filosofia senza teodicea.

La posizione di tale tesi può risultare improvvida e, certo, essa necessita di prove senza le quali rischia ineluttabilmente di ridursi a sterile enunciazione. Alla individuazione di tali prove è rivolta la ricerca qui presentata.

Il conio del termine “teodicea” (da theós, Dio e díke, giustizia), con cui si indica il tentativo di pensare in maniera sistematica Dio e il male, risale all’opera di Gottfried Wilhelm Leibniz. Non è privo di importanza che negli Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, pubblicati nel 1710, il termine “teodicea” ricorra solo nel titolo. In questa scelta, è senz’altro ravvisabile l’avvertimento che la teodicea propriamente detta non può essere racchiusa in un singolo paragrafo o capitolo, quanto piuttosto dall’insieme delle numerosissime questioni insite nel nesso Dio-male.

È, comunque, sorprendente come una tale coincidenza di un plesso articolato di questioni in un termine per opera di un filosofo, abbia potuto produrre, per una sorta di eterogenesi dei fini, un esonero della filosofia nei confronti di quelle stesse questioni.

Inoltre, il credito, non sempre meritato, di cui hanno goduto le critiche mosse alla teodicea, non solo nella sua versione leibniziana, ha ottenuto il non trascurabile effetto di rendere in un certo senso “superfluo” il testo di Leibniz. Sin da subito, a partire dai celebri strali polemici mossi da Voltaire, si è creata una situazione per certi versi paradossale, che non sembra essere venuta meno nemmeno oggi: ci si riferisce alla teodicea quasi esclusivamente per via negativa, per ciò che essa non è riuscita ad ottenere, tralasciando di considerare se il suo presunto fallimento sia dovuto effettivamente a cause endogene e non piuttosto ad un domandare improprio.

Nello specifico, con riferimento a Leibniz, questa accennata rimozione ha di fatto reso nulla la possibilità di cogliere la connessione tra i singoli aspetti della teodicea e la restante elaborazione filosofica del filosofo di Lipsia, facendo con ciò torto non solo e non tanto a Leibniz, ma alla filosofia stessa, deprivata in tal modo di una sua componente erroneamente considerata accessoria.

Al culmine di questo processo, la teodicea è diventata una sorta di riserva indiana, all’interno della quale gli studiosi sono liberi di esercitare il proprio specialismo, richiesto per entrare nei meandri delle intricate questioni. Tuttavia, l’esito di una teodicea ridotta esclusivamente a specialismo non può non indurre un qualche sentimento di tristezza di fronte all’impoverimento dell’istanza, vitale in ogni filosofare, di attualizzazione dei problemi dai quali filosofia, prima e teodicea, poi, sono scaturiti.

Credo fermamente sia condizione di possibilità di un pensare rigoroso il richiamo a quella «esigenza – riferita, tra gli altri, da Cristin – per il pensiero di ascoltare, proprio in base all’esperienza filosofica del nostro presente, ciò che Leibniz può dirci oggi. Riuscire cioè a capire se c’è qualcosa nel suo pensiero che tocchi la tonalità di pensiero della nostra epoca» (1)

La grande opportunità che si profila davanti ai nostri occhi sta, dunque, nell’uscire dalla riserva. Alcuni ritengono, erroneamente a mio avviso, che una tale estroversione contaminante corrisponda ipso facto ad una banalizzazione e depotenziamento dell’impresa filosofica che invece sarebbe garantita dal costante stazionamento presso la polvere degli archivi.

Una preoccupazione di questo genere non è del tutto infondata, ma il modo in cui si può farvi fronte non consiste in un accrescimento dell’isolamento nel proprio specialismo, ma nel tentativo sempre rinnovato di tradurre quello specialismo in risposta di senso ai problemi presenti nella coscienza di ogni uomo.

[Nella prossima tappa, quale specifica configurazione deve darsi la filosofia per cogliere appieno le potenzialità della teodicea?]

 

Note

(1) R. Cristin, La camera oscura. Implicazioni e complicazioni del soggetto in Leibniz, «aut aut», n. 254-255, marzo-giugno 1993, p. 161. Si veda anche F. Costa, Attualità della teodicea? in «Filosofia e Teologia», Anno VII, n.1/1993, pp. 223-250; L. Russell, What is living and what is dead in the philosophy of Leibniz, Edizioni di filosofia, Torino 1970

4 pensieri su “Teodicea: in cerca del drago

  1. Non sono filosofo, e non sapevo della teodicea, ma non posso che essere contento che la teodice sia relegata agli specialisti della teologia.

    Ci sono serie possibilità che Dio sia solo un costrutto di pensiero (senza parlare di tutte le religioni che non vengono mai prese in considerazione dai teologi cristiani – o cattolici), e la filosofia deve invece ragionare sul sapere e sulla realtà di tutti gli esseri umani, senza quelli che potrebbero essere solo dei vincoli autoimposti e, in ultima istanza (e sempre fino a prova contraria), nati da assunti potenzialmente falsi.

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    1. Caro Andrea, grazie per il Tuo commento. In realtà, l’intento principale della teodicea è di tipo apologetico. L’esistenza di Dio viene data per presupposta e, proprio per questo, si cerca di trovare una spiegazione alla classica domanda “Ma se dunque Dio esiste, da dove viene il male?”. Per quel che mi è dato di capire, il confronto con le risposte della teodicea è senz’altro una valida opzione, non soltanto per i teologi e/o i filosofi di professione. Perché ciò accada, tuttavia, sono necessarie almeno due cose:
      1) Una capacità di ascolto da parte di coloro che per professione si occupano di questi temi. Il confronto, infatti, per essere un vero dialogo e non un “duologo”, non può essere a senso unico e bisogna essere in grado di ascoltare anche le istanze di coloro che hanno posizioni antitetiche;
      2) Una capacità di superare i tecnicismi, cosa più facile a dirsi che a farsi. E’ per questo che la prossima tappa di questo viaggi nella teodicea prevede di mettere a tema la “postura” della filosofia di fronte al male.

      Grazie ancora e buon cammino!

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      1. Gentile Giovanni,
        ovvio che per un credente la teodicea è un campo di riflessione più che legittimo, commentavo solo che i filosofi non devono assolutamente essere credenti (nella professione di filosofi, intendo. Chiaro che nella vita privata possono fare ciò che vogliono), ma dubitanti e inquisitivi per verità più condivisibili. Quindi trovo giusto che solo i filosofi interessati alla speculazione ipotetica più selvaggia si dedichino alla teodicea.
        Detto questo il punto 1) è chiaramente un invito ai non credenti a cimentarsi nella teodicea (e un gesto di inclusione che mi commuove sinceramente, dopo tanti integralisti), ma credo che la disponibilità al dialogo non sia l’unico requisito per questa operazione, altrimenti anche io parteciperei volentieri.
        Il punto è che qualsiasi ‘dialogo’ degno del nome si deve poter muovere in qualsiasi direzione, rispetto alle tesi di partenza – in questo caso la direzione che qualsiasi non credente darebbe al dialogo sarebbe in direzione dell’indagine sulle premesse – e non gioverebbe alla teodicea.
        Anche evitando il più scontato “Dio esiste davvero?” si incapperebbe in domande che rapidamente invaliderebbero la teodicea.
        “In che modo e perché il concetto di Dio dovrebbe opporsi al concetto del male?”, “come viene definito il male, e perché?”, “esiste davvero un ‘male’ in quanto tale, e perché si presuppone che derivi da qualche parte? Da dove si pensa che potrebbe ‘provenire’ da qualche parte o origine?” sono solo alcune delle domande che verrebbero in mente a me.
        Con delle premesse simili, più simili a un terreno smosso che a delle fondamenta solide, si potrebbe discutere all’infinito senza arrivare mai davvero a un accordo, no?

        Grazie per la risposta e per avermi insegnato qualcosa di nuovo (e per la gentilezza e lo spirito di inclusività)

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  2. Caro Andrea, Ti sono vivamente grato per il Tuo intervento e per gli importanti interrogativi cui provo, brevemente, a rispondere.
    1) Temo che un “ground zero” delle credenze sia impossibile, anche per il pensatore che voglia essere il più oggettivo possibile. Si tratta, invece, di riuscire – qualunque sia il punto di partenza – a tenere in conto il rischio dei propri pregiudizi. In tal senso, in linea di principio, possono esserci pensatori credenti ed oggettivi così come pensatori atei e non obiettivi. Gadamer ha scritto in proposito pagine molto significative;
    2) Le domande formulate nel Tuo intervento sono in realtà già parte della teodicea. Come giustamente rilevavi, infatti, l’ascolto autentico non si preclude alcuna possibilità, anche di discutere dei fondamenti stessi. Il presupposto dell’esistenza di Dio è funzionale, soprattutto nella versione della teodicea datane da Leibniz, per la tribunalizzazione dell’istanza della teodicea. In altre parole, si tratta di portare Dio in tribunale per giudicarlo, nel tentativo di stabilire se c’è una sua implicazione con il male. Ci sono diverse versioni della teodicea. Nel libro “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, Jonas propone un aggiornamento delle tradizionali categorie mediante cui Dio è stato pensato. La devastazione della Shoah dimostra, secondo il filosofo ebreo, che bisogna sottrarre al concetto di Dio l’attributo dell’onnipotenza. Infatti, se Dio fosse stato veramente onnipotente, avrebbe evitato che la Shoah si verificasse;
    3) Arrivare o no ad un accordo, una volta che si siano smosse le questioni?, Tu chiedi. Mi è tornata in mente una bella frase di Guido Morselli, scritta in “Fede e critica”. Morselli dice: “Bisogna, ragionando, convincersi che il ragionamento non è sufficiente”.

    Grazie ancora!

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