Comunicazione e digiuno

La domanda è, in fondo, sempre la stessa: perché, quando si comunica, avvertiamo una resistenza in noi e negli altri?

Ci sono, ovviamente, molte risposte possibili ed in larga parte esse hanno a che vedere con la nostra personalità. Ci sono, tuttavia, anche fattori che investono il contesto in cui le nostre azioni comunicative si collocano. Comunicare bene allora richiede di guardare oltre se stessi.

La nostra società ha sviluppato alcuni meccanismi che comportano l’estromissione dell’alterità, sostituita dalla differenza. Non è una cosa di poco conto, perché l’alterità rappresenta un’occasione unica: la possibilità stessa di dare voce, prestando ascolto, a coloro che, in ragione di ciò che sono, possono mettere in discussione e perfino contraddire i nostri valori, i nostri tradizionali sistemi di riferimenti, cioè l’insieme dei modi con cui abbiamo strutturato ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. L’alterità non rappresenta una blanda sfumatura dei nostri valori, ma la stessa eventualità che essi possano essere confrontati con altri valori.

Tale possibilità fondamentale non corrisponde ad una sorta di esterofilia dell’umano, ma è implicita nel radicamento nelle nostre stesse idee. Perfino il sistema di valori più autosufficiente, infatti, non può fare a meno, quale condizione e a garanzia della propria della propria fondatezza, di confrontarsi con l’alterità.

Ora, di fronte alla eventualità di un confronto con l’alterità, sia che si parli di relazioni personali sia che si riferisca tale dinamica a sistemi sociali, la reazione più classica è il rinchiudersi in se stessi (nel proprio privato, nelle proprie relazioni, nei propri gruppi di riferimento), secondo la logica dell’arroccamento identitario.

Quali sono le conseguenze per la comunicazione di questa sistematica chiusura? A ben vedere, la società che respinge l’alterità diviene la società dell’eguale, dove ciò che importa è solo l’io, declinato in tutte le forme.  Comunicare significa stabilire un legame con l’altro. Ma se la nostra società fa a meno dell’altro, allora stabilire un legame con lui è pressoché impossibile. La nostra condizione è di essere schiacciati su un’autoreferenzialità, anche per effetto della sistematica estromissione dell’alterità dalla nostra società.

Come scrive Byung-Chul Han, “In conseguenza di tale generale positivizzazione del mondo (cioè di riduzione del mondo all’uguale, alla reiterazione dell’io), tanto l’uomo quanto la società si trasformano in una macchina di prestazione autistica”. È proprio questo il fattore che rende una comunicazione autenticamente umana impossibile.

Come fare a reagire ad una situazione che è sistemica e su cui sembra possiamo intervenire ben poco? Vorrei allora richiamare un racconto breve, Un digiunatore, scritto da Kafka nel 1922, in cui si racconta la storia di un uomo che ha deciso di digiunare ad oltranza, fino al limite massimo consentito dalla sua sopravvivenza e che, intento in questa impresa, viene esibito alla folla dei curiosi. Il racconto inizia rilevando già un diminuire dell’interesse per i digiunatori. Un tempo, le folle accorrevano. Adesso, solo i curiosi.

Che cosa interessa del digiunatore? Sì, senz’altro la sua capacità di astenersi dal cibo; di come si possa riuscire in un’impresa che contraddice tutte le più basilari convinzioni di una società incentrata sul consumo, sull’assimilazione per la conferma di sé.

Nel racconto, noi troviamo da una parte, allora, il digiunatore, un uomo che si trattiene da tale forma di commercio con il mondo, simbolizzata dalla rinuncia al cibo; dall’altra, occhi – gli occhi degli scrutatori – che osservano ciò che sembra a tutti gli effetti un uomo strano, il digiunatore, una specie di anomalia, tollerata per diletto o mera curiosità, ma mai presa sul serio, mai intesa nella sua valenza di alternativa al modello dominante.

Proprio il modello dominante sembra essere l’obiettivo polemico del racconto di Kafka, quell’essere diventati così impastati di gesti quotidiani, da aver smarrito del tutto la possibilità di immaginarsi diversi anche di fronte ad un uomo, il digiunatore, esempio vivente di una tale alternativa a ciò che tutti considerano normale.

Kafka riferisce che con il tempo, anche quell’interesse residuo nei confronti del digiunatore verrà meno. L’uomo sarà dimenticato, rinchiuso nella sua gabbia e, dopo molto tempo, ritrovato per caso, ormai allo stremo dello forze.

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Ecco, allora, il colpo di scena cui si perviene quando al digiunatore si presti ascolto. Quest’uomo, che si astiene dal cibo, non era un fenomeno da baraccone, come sempre considerato da chi era troppo distratto per vedere l’altrimenti. L’uomo, infatti, si astiene dal cibo non per un capriccio o perché volesse morire. Si astiene da quel cibo perché cercava un altro tipo di nutrimento e, con il suo gesto, invitava tutti a non ritenere scontato il proprio nutrimento.

Il finale del racconto sembra ricondurre la storia alla normalità consueta: dopo la morte del digiunatore, nella sua gabbia viene collocato una belva famelica, pronta a divorare ogni genere di cibo sotto gli occhi soddisfatti dei presenti.

Ovviamente, non sfugge come la messa in scena di Kafka ci interpelli direttamente. Ci invita ad aprire gli occhi per collocarci dentro il racconto. Siamo dalla parte di coloro che, mentre osservano distrattamente, continuano indisturbati a condurre a propria esistenza, passando di distrazione in distrazione? Siamo coloro che forse hanno intuito qualcosa dell’identità del digiunatore? Siamo coloro che, una volta che il digiunatore si sia manifestato, siano pronti ad accogliere il suo messaggio, cioè a capire che il suo accoglimento richiede una seria messa in discussione del nostro sistema di credenze?

Reagire alla difficoltà del comunicare

Vorrei, allora, tornare alla difficoltà di comunicare dalla quale siamo partiti.

Ci sono diverse modalità per reagire a quella difficoltà.

La prima, che chiamerei la logica degli occhi chiusi è di non fare niente. Si lascia correre. Si pensa, che “sì, in fondo, è vero che ci sono delle difficoltà, ma poi, è pur vero che ci sono difficoltà ovunque”.

Una seconda modalità per far fronte alla difficoltà di comunicare è di mettersi alla ricerca degli strumenti. È ciò che chiamo la logica della leva. Essa corrisponde all’illusione che bastino gli strumenti per cambiare le cose. Rispetto al primo modello, la logica della leva attesta un impegno, senz’altro positivo a risolvere il problema. Indubitabilmente, nella comunicazione possono sicuramente essere individuate degli accorgimenti per comunicare meglio. Sbaglieremmo, tuttavia, se ritenessimo che la comunicazione possa effettivamente in una serie di tecniche. Essa è, piuttosto, il comunicarsi di ciò che siamo, una dimensione immateriale su cui nessuna tecnica può intervenire, perché ciò che siamo si sottrae ad ogni prensione.

E veniamo così al terzo modello che chiamerei la logica del digiuno. Di fronte alla comunicazione propriamente detta, noi siamo in realtà sguarniti. Tanto più possiamo avvicinarci a ciò che essa rappresenta, quanto più sapremo fare un passo indietro rispetto alla famelicità con cui consumiamo le cose, i rapporti, le relazioni. Non c’è comunicazione autentica se non c’è un passo indietro rispetto al commercio con le cose. Non c’è comunicazione senza ascesi.

Comunicare, dunque, è molto più che comunicare. Esso richiede che si aprano gli occhi, non ci si accontenti di presunte leve con cui sollevare ostacoli la cui entità richiede un diverso genere di intervento, fondato piuttosto sull’arresto e l’inversione della nostra tendenza a fagocitare ciò che abbiamo intorno. Solo così l’umano potrà essere visto nella sua interezza, senza il timore di considerare l’invisibile di cui siamo costituiti.

3 pensieri su “Comunicazione e digiuno

  1. Buongiorno,
    mi scuso se commento quasi solo quando non sono d’accordo: il blog è molto interessante e merita complimenti.

    Però nelle conclusioni di questo articolo trovo delle riflessioni che non mi convincono, perché probabilmente i presupposti non sono affatto condivisi, soprattutto riguardo al collegamento tra comunicazione e ascesi.

    Personalmente negherei questo collegamento sulla base della mia esperienza personale: i miei tentativi di comunicazione negli anni sono ‘migliorati’ (ehm) secondo una logica *discendente*, di avvicinamento al mondo, alle emozioni e alle passioni, al mondo del ‘corpo’: che sono gli elementi che condivido con gli altri esseri umani che sono i miei interlocutori.

    Contesto anche il problema individuato nella bulimia e nella tendenza a ‘fagocitare’ sensazioni, eventi, informazioni, relazioni.
    Il problema (e il racconto di Kafka andrebbe interpretato forse anche da questo punto di vista) è che tutti produciamo segni, ma nessuno ‘consuma’ più i segni prodotti da altri. Tutti parlano, assaggiano, ma nessuno ascolta, nessuno fruisce, nessuno consuma davvero, insomma.

    Da questo punto di vista il digiuno del racconto è davvero una ricerca di qualche altra forma di sostentamento, ma è anche una ribellione alla vita, all’assurdo: una ricerca di un assoluto che, sembrerebbe, arriva fino alla morte per consunzione, pur di trovare un significato che latita.

    (ovviamente a questi livelli di astrazione gli opposti non sono mai così lontani come vorremmo, quindi mi rendo conto che la distanza tra la mia interpretazione e quella dell’articolo è molto sottile, in realtà, e sostenuta solo dal mio desiderio di partecipare a una discussione in cui mi sembra di percepire un sentimento importante)

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    1. Caro Andrea, Ti ringrazio per aver voluto condividere i tuoi pensieri. L’ascesi cui mi riferisco è la capacità di fare marcia indietro rispetto alla immissione automatica in un flusso comunicativo che sostanzialmente equivale allo scambio di gettoni verbali. Se nessuno, come Tu osservi, “consuma” i segni degli altri, è per due ragioni: 1) si è giunti ad un tale livello di saturazione che procedere oltre è quasi impossibile; 2) la comunicazione propriamente detta non andrebbe ridotta all’uso e consumo dei segni propri e/o altrui.
      Ho cercato qualche spiegazione che desse conto di questi due fattori ed ho trovato riscontri importanti nelle riflessioni di Byung-Chul Han. Questa ‘consonanza’ mi rincuora. Troppo spesso le falle nella comunicazione sono rintracciate al livello dei singoli, quando invece ci sono dei fattori di ordine diverso. In conclusione, il termine ‘comunicazione’ (ma anche ‘ascesi’) andrebbero sdoganati e risemantizzati, proprio se vogliamo che siano sempre più significativi. Grazie!

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  2. io comprendo che il corpo non accetti e non riconosca come cibo un nutrimento che non lo nutre. conosco un corpo che non assimila più niente. ha deciso di non assimilare. si rifiuta e non ha patologie. mangia mangia mangia ma sta scomparendo. chiedo cosa significa. c’è un significato profondo ancora celato. articolo bellissimo, davvero, grazie. non ho visto video. preferisco leggere

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