La maschera delle consuetudini e lo sguardo ad oriente

Nei giorni scorsi, mi è capitato di leggere un curiosa storiella ebraica in cui si racconta di un negoziante la cui vetrina fu imbrattata dai vandali. Il negoziante fece ripulire la vetrina, ma la notte successiva i vandali tornarono e riempirono di nuovo la vetrina di scritte offensive. A quel punto, il negoziante pensò di cambiare strategia e così, la notte seguente, si nascose nei dintorni del negozio. Quando i vandali tornarono, egli uscì all’improvviso dal suo nascondiglio e, nella sorpresa dei suoi interlocutori, fece loro una proposta: gli avrebbe dato dieci dollari se avessero imbrattato nuovamente la vetrina. Insospettiti dalla strana proposta, ma allettati dall’offerta, i vandali accettarono e così ricoprirono le vetrate di disegni e frasi ingiuriose. La notte seguente, i vandali si ripresentarono per controllare se i loro disegni erano stati cancellati. Sorprendentemente, trovarono ad aspettarli ancora una volta il proprietario del negozio, il quale stavolta promise loro cinque dollari per imbrattare di nuovo la vetrina. I teppisti accettarono. La terza notte, la scena si ripeté, ma il negoziante offrì loro solo un dollaro per il loro “lavoro”. A quel punto, i teppisti si fermarono, sdegnati: perché mai avrebbero dovuto imbrattare le vetrine per così poco denaro?

All’inizio, ho riso. Mi sono immedesimato nel negoziante, immaginando la sua rabbia ed il suo sconforto. Mi sono immedesimato pure nei teppisti, presi in contropiede da un comportamento insolito.

Se mi fossi trovato al posto di quel commerciante, come avrei reagito? E voi?

1. L’uomo e la maschera della consuetudine

Il commerciante va elogiato per la forza del controllo che riesce ad esercitare, prima di tutto nei confronti della propria rabbia tenuta a freno. Il controllo che più mi interessa interrogare è relativo al modo in cui egli inverte gli ingranaggi delle azioni al punto tale che la stessa logica soggiacente al suo comportamento diventa inintelligibile e, proprio per questo, produce i suoi frutti. Il commerciante, in fondo, sembra procedere contro i suoi interessi, proprio mentre li sta perseguendo nel modo più efficace.

In qualche modo, il suo comportamento ribalta il prima e il dopo, cioè tutto ciò che secondo il tradizionale modo di pensare, rappresenta la legittima scansione delle nostre azioni. Ciò detto, è possibile fare un passo avanti. La storiella può condurci a ragionare non tanto del comportamento di un singolo uomo, ma di un più generale modo di essere uomo. Questo passaggio mi interessa, allora, perché in effetti riguarda anche me. Colgo dunque il significato del detto di Orazio De te fabula narratur (Orazio, Satire, I, 1, 69-70): sono implicato. Che cosa vuole, dunque, dirmi questa storia?

Questa storia mi parla del modo in cui siamo legati a schemi ricorrenti di azione che impieghiamo molto spesso in modo del tutto inavvertito. Al tempo stesso, questa storia mi parla di come sia possibile sottrarsi a questo condizionamento, liberarsi da questo limite alla libertà.

Che cosa sono questi schemi ricorrenti? Quale nome possiamo dar loro?

Stiamo parlando delle consuetudini. Montaigne nei Saggi osservava che siamo dominati dalle consuetudini. Chi sia in grado di togliersi di dosso la loro maschera, “riconducendo le cose alla verità e alla ragione, sentirà il suo giudizio come tutto sconvolto, e tuttavia rimesso in ben più saldo assetto” (Montaigne 1970, 152). Il peso delle consuetudini si fa avvertire in ogni ambito, non esclusa la comunicazione.

La storiella da cui siamo partiti, dunque, forse ci ha fatto sorridere, ma – mentre ciò accadeva – ci instradava verso una tematizzazione del nostro rapporto con le consuetudini, facendoci intravedere la loro effettualità, senza rinunciare alla speranza di una presa di coscienza del loro ruolo e, dunque, del modo di alleggerirne il peso.

Il commerciante della storiella rappresenta ognuno di noi quando è in grado di lasciarsi alle spalle una possibile reazione consuetudinaria per adottare una condotta innovativa. Questa condotta è una possibilità dischiusa per ogni uomo. Come tale, essa può essere inscritta nella definizione stessa dell’umano.

2. L’opzione fondamentale della verticalità

Martin Heidegger

Riflettendo sull’umano, è significativo che ad una conclusione simile si giunga per un altro percorso che prende le mosse da un frammento di Eraclito, composto di tre soli termini: Ethos anthropo daimon.

Di questo frammento ci sono diversi possibili sensi. Alla versione più tradizionale per la quale “la condotta dell’uomo è il suo destino”, Heidegger contrapponeva la propria, secondo cui “La sua peculiarità è per l’uomo il proprio demone” (Heidegger 1955, p. 90; cf. Sloterdijk 2010).

Della definizione del filosofo di Efeso, colpisce la posizione mediana occupata dal termine anthropo. Nel contesto dei tre termini, l’uomo è così al centro di una tensione tra due poli. Da un lato, l’ethos, che potrebbe proprio essere fatto valere come la consuetudine; dall’altro, il daimon che, in termini generali, indica quell’entità che strappa dalla condizione attuale per indirizzare verso altro.

Quella particolare sequenza di tre parole non è una frase tra le tante, dunque, ma ci sta dicendo qualcosa che ci riguarda da vicino, qualcosa che assomiglia ad una definizione, un modo per parlare di ciò che siamo.

Quelle tre parole greche, su cui così tanto la riflessione filosofica si è soffermata, costituiscono un ideale hashtag con cui si è cercato di vedere l’invisibile, ciò che connota veramente l’umano, un po’ come oggi ciascuno di noi fa quando ricorriamo sui social all’hashtag per definire qualcosa nel modo più sintetico possibile.

La condotta dell’uomo, osserva Eraclito, vive all’interno di una tensione verticale. Si può andare verso il basso o verso l’alto a seconda che ci si affidi all’ethos o al daimon, una oscillazione che ha come sua condizione preliminare l’opzione fondamentale secondo cui il senso è da preferire al non-senso; la progressione da preferire alla regressione. “La suprema virtù è il retto pensiero” dirà ancora Eraclito (fr. 119, 112 Diels). In altri termini, esiste qualcosa che merita di essere perseguito. Perseguire qualcosa (la virtù) è un bene, non perseguire la virtù, un male. Tale orientamento verso la verticalità diviene possibile tramite una gradualità: la virtù si acquisisce lentamente (Aristotele ricorderà, in tal senso, che una rondine non fa primavera) ed è, allora, una disposizione.

Secondo una tale impostazione, nel cuore dell’umano, non c’è una equivalenza tra opposti orientamenti, ma piuttosto una precisa direzione intenzionale.

Tutto qui? Se la storia finisse qui, in effetti, non sarebbe male. Avremmo, infatti, acquisito come sia possibile tematizzare un rapporto con la consuetudine, come sia possibile liberarsi dal suo peso vincolante (che, si badi bene, non significa fare a meno del ruolo della consuetudine tout court, ma più opportunamente prenderne coscienza).

In realtà, la storia non finisce qui, perché se è vero che un orientamento verso il senso esiste, come abbiamo visto, proprio nel cuore dell’umano, non possiamo esimerci dal chiederci da dove esso provenga. Ciò di cui abbiamo bisogno allora è una archeologia del senso.

3. Ritrovare l’oriente

Eraclito

Ragionare di archeologia del senso, in qualche modo, richiede di portarsi in quel luogo mitico, in quell’inizio, dove è dato intravedere la scaturigine dell’orientamento, nella originarietà della sua manifestazione.

Da dove partire? Credo convenga risalire al significato originario del termine orientamento. Orientamento, dunque, deriva da oriente, participio presente del verbo latino oriri, il cui significato è annunciato in un antico detto: “Oriri apud antiquos surgere frequenter significat”, ovvero presso gli antichi, oriri significava sorgere frequentemente. Oriente è, dunque, ciò che ripetutamente sorge e, come tale, si sottrae alla transitorietà degli elementi che non possono far valere per se stessi la stessa costanza. Il “surgere frequenter” è principio di individuazione di ciò che è costante e che, come tale, diventa punto di riferimento.

Il termine orientamento, dunque, per derivazione, significa: discernere la propria posizione in rapporto a punti di riferimento, identificati in base alla costanza di presentazione di ciò che sorge. Nella originaria indistinzione, in questo spazio e tempo mitici, ciò che si presenta costantemente, infatti, ha un valore distintivo rispetto al resto degli elementi. L’oriente rappresenta il portarsi fuori dalla immanenza fusionale, in ragione di una trascendenza affermatasi in base alla costanza di presentazione. Propriamente parlando, qui nasce l’umano come distinto da altre sfere della vita. L’orientamento è il riconoscimento di una differenza nell’ordine delle cose, a partire dalla quale è possibile effettuare scelte, cioè optare a favore di una cosa, ritenuta dotata di valore, rinunciando nel contempo alle altre.

Il senso, colto nella originarietà della sua manifestazione, è l’intelligibilità del percorso che dirige lo sguardo verso ciò che è più costante, isolandolo da ciò che non lo è.

Conclusioni

Quando guardiamo al cuore dell’umano, ci accorgiamo che ciò che ci connota è senz’altro lo sguardo in grado di accorgersi che nell’ordine delle cose si dà uno scarto ineguagliabile, una differenza di valore. Questo è, per come abbiamo potuto commentarlo in queste brevi note, il senso di quella frase latina in cui veniva ripreso il significato del verbo oriri.

Quel luogo mitico in cui viene emergendo l’umano, come differenza distintiva rispetto a ciò che lo circonda, non è accaduto una volta per tutte. Si tratta, in realtà, di una dinamica riattivabile ogni volta che siamo dis-orientati, che abbiamo perso il nostro centro, l’oriente.

Ragionare del senso significa ogni volta fare memoria di questo originario percorso, rivivere ciò che ne è alla base, sentire l’esigenza di separarsi dal regno della indistinzione, spingendosi oltre, verso ciò che è altro rispetto a noi stessi. Cercare il senso è riconoscersi in quel movimento che ci proietta verso ciò che non è ancora a nostra disposizione e che, proprio da tale distanza, ci convoca.

 

 

Riferimenti bibliografici

Heidegger, Martin. 1955. Lettera sull’umanismo. Milano: Adelphi

Montaigne, Michel. 1970. Saggi. Milano: Arnoldo Mondadori Editore

Sloterdijk, Peter, and Paolo Perticari. 2010. Devi cambiare la tua vita: sull’antropotecnica. Milano: Raffaello Cortina.

 

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