Ovunque andiamo al giorno d’oggi c’è qualcuno che ci sta propinando qualcosa nelle orecchie, che sia in un mercato, in un ascensore, in un aereo, in un ristorante o in un’aula di scuola.
Abraham Kaplan, Il duologo
Se, in un ipotetico esercizio mentale, ci venisse chiesto di spiegare in che rapporto si trovino i due ambiti di “presenza” ed “assenza”, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione di inquadrare la prima dimensione, la presenza, nel novero di ciò che è positivo e l’assenza nel negativo. L’assenza, infatti, in prima istanza rinvia alla deprivazione, alla penuria, mentre la presenza quasi inevitabilmente conduce il pensare all’azione, all’esserci e, più in generale, all’imprimere alle cose un corso determinato dalla nostra volontà.
Tale accennata polarizzazione tra presenza (positivo) e assenza (negativo) rappresenta una specie di costante accompagnamento che sottotraccia troviamo in molti ambiti della nostra esistenza. Uno di questi ambiti è costituito dalla comunicazione. È proprio a questo livello che, sia al livello della vita di relazione sia nei rapporti di lavoro, non di rado accade che si tenda a rifuggire da tutte quelle occasioni in cui c’è silenzio, immediatamente identificato con l’assenza. Immersi nel silenzio, così interrotta la corrente continua che ci lega al mondo, ci sentiamo quasi nudi, inadeguati, fuori dalla nostra consueta comfort zone. Non vediamo l’ora che quella interruzione abbia fine, riconoscendole un’estraneità a cui non vogliamo diventare prossimi.

Nel silenzio facciamo l’esperienza dell’interruzione del dire, del nostro parlare esteriore. Anche se non sempre ciò comporta l’arresto della nostra voce interiore, già questo primo accadimento si colloca nell’ambito dell’inedito. È proprio questo il momento in cui, secondo Abraham Kaplan, può verificarsi un vero e proprio evento eccezionale: possiamo “vedere” l’altro. Ora, contrariamente a quanto sarebbe facile pensare, tale visione non è in grado di svelare il mistero dell’altro o, detto altrimenti, non ci consente di inserirlo in una delle consuete strutture con cui ordiniamo il mondo. L’altro, per dirla con una metafora, non è un libro fuori posto da reinserire nella libreria di casa. L’altro, per rimanere fedele a ciò che è, rimane tale anche dopo il contatto con noi. È il non maneggiabile, per eccellenza. Quando ciò non accade, cioè se ci sentiamo in grado di afferrarlo ed esibirlo, come fosse una preda, è segno che è stato ridotto a cosa, che è stato reificato. Il contatto con l’altro è autentico quando riesce sia a tutelare il suo mistero che a mostrare il nostro grado di implicazione. È proprio questo, il punto. Io e l’altro siamo implicati, tessuti insieme da una relazione, secondo una dinamica che era stata ben intravista da Lévinas, quando osservava che “Incontrare un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma”.
Questa esperienza rivelatrice si rende possibile nell’ascolto, cioè in quel momento in cui, a partire dalla comunicazione, io scommetto sul valore dell’assenza piuttosto che su quello della presenza. La comunicazione stessa, allora, cessa di essere riconducibile ad una mera tecnica mediante cui persuadere gli interlocutori. Essa è, piuttosto, la cartina di tornasole della qualità dell’umano.
Nel vuoto creato dalla mia assenza (assenza del mio protagonismo, del mio parlare e, più in generale, della mia egolatria), l’altro può incunearsi ed io posso iniziare a rendermi conto dell’esistenza di un altro mondo, di un altro sistema di riferimento, di un’altra vita possibil
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Questa avventura dell’umano è significativamente resa da Kaplan con le seguenti parole: “Se non cercassimo così tanto la nostra identità, ma ci occupassimo dell’altro, potremmo trovare ciò che non stavamo cercando”.
(pubblicato su “Capoverso”, blog di Ugo Perugini)