La svolta antropologica della dialogetica richiede, ed al tempo stesso provoca, una svolta antropologica nella nostra percezione del sé e dell’altro. Tale svolta inizia con un accurato esame interiore, quel tipo di conoscenza profonda di se stessi che è fondamentale per ogni forma di comunicazione autentica.
La spina nella carne, p. 2
Una delle premesse del mio discorso è che, se vogliamo veramente comprendere cosa sia il dialogo, dobbiamo riferirci non tanto alle sue tecniche, ma all’umano. Vorrei, dunque, provare ad esplicitare proprio le ragioni sottese, da un lato, all’abbinamento tra dialogo e comunicazione e, dall’altro, all’antropologia filosofica.
Ragionare su questo nesso richiede di prescindere dalle molte forme che il dialogo può assumere e di provare a tornare ai suoi fondamentali presupposti. Spesso, impegnati nella nostra quotidianità ricca di scambi verbali, trascuriamo di considerare le sorgenti del dialogo. È un po’ come se, familiarizzati con il corso di un fiume e i suoi molteplici affluenti, dimenticassimo di esplorarne la sorgente. Tuttavia, proprio come un fiume è alimentato da una fonte che ne determina la portata e la direzione, così il dialogo trae origine da presupposti essenziali che ne definiscono la struttura e il significato.

1. L’esperienza della mancanza costitutiva
In questo percorso che ci spinge verso i fondamenti, il primo elemento da richiamare e che, come scopriremo, è alla base di ogni possibilità di scambio dialogico, è costituito dall’avvertimento della propria incompletezza fondamentale.
I motivi per cui entriamo in una relazione comunicativa con qualcuno possono essere disparati: raggiungere un accordo su qualcosa, spiegare il proprio punto di vista, convincere gli altri, ecc.
Se, tuttavia, proviamo a prescindere dalle numerose motivazioni possibili e cerchiamo di far scaturire le ragioni di fondo sottese ad ogni interazione comunicativa, non possiamo che fare i conti con una costitutiva insufficienza. Non una mancanza accidentale, ma strutturale: il nostro essere-nel-mondo è intrinsecamente caratterizzato da “vuoti” che cercano completamento. Come un testo che presenta spazi bianchi tra le parole, la nostra esperienza è intessuta di zone d’ombra che attendono illuminazione.
Come mi accorgo della mia condizione? Come mi rendo conto che la mia condizione non può definirsi di autosufficienza? E, poi, da dove viene questa idea della autosufficienza?
Per rispondere a queste domande, partiamo da un esempio:
Maria amava spiegare tutto ai suoi figli: la pioggia, le stelle, il perché le foglie cambiano colore. Una sera suo figlio di sei anni, guardando dalla finestra, le chiese: “Mamma, dove va la luce quando spegniamo la lampada?”. Maria aprì la bocca per rispondere, come sempre. Ma questa volta sentì che ogni spiegazione scientifica sarebbe stata inadeguata davanti alla profondità nascosta in quella domanda apparentemente semplice. Per la prima volta, invece di rispondere, si sedette accanto a lui e disse: “È una bellissima domanda. Cosa ne pensi tu?”. Quella sera, madre e figlio iniziarono davvero a dialogare.
L’esempio ci mostra innanzitutto una situazione quotidiana, apparentemente banale: Maria è una madre che ha costruito il suo ruolo genitoriale attorno alla capacità di fornire risposte. Il suo modo di relazionarsi si basa su uno schema verticale, dove lei è la fonte del sapere che fluisce verso il figlio. Questa dinamica riflette un’illusione di autosufficienza che, paradossalmente, ostacola la possibilità di un dialogo autentico.
La svolta avviene quando il bambino pone quella domanda apparentemente semplice sulla luce. In quel momento si crea una frattura nel modello abituale di comunicazione. Non è tanto la domanda in sé a provocare lo spiazzamento, quanto la sua risonanza esistenziale. Maria intuisce che dietro la curiosità infantile si cela qualcosa di più profondo: il mistero della presenza e dell’assenza, il tema del divenire, la questione di ciò che non vediamo ma esiste.
Il momento cruciale si manifesta quando Maria apre la bocca per rispondere “come sempre”. È proprio qui che avviene la trasformazione: riconosce che una spiegazione tecnica sarebbe riduttiva, avverte che il suo sapere abituale non basta, sente che è chiamata a qualcosa di diverso dal semplice spiegare. È a quel punto che pone la domanda “Cosa ne pensi tu?”. Questi gesti segnano la nascita di una nuova modalità relazionale basata sulla reciprocità e sulla comune ricerca. È particolarmente significativo che questa trasformazione avvenga in un contesto madre-figlio, dove il ruolo genitoriale spesso si identifica con il “dover sapere”. L’insufficienza riconosciuta non indebolisce il ruolo materno, ma lo arricchisce di una nuova autenticità. Il vero dialogo nasce proprio quando Maria rinuncia alla pretesa di avere tutte le risposte e accetta di trasformare il “dover rispondere” in un “poter cercare insieme”.
L’atteggiamento di Maria rispecchia una postura esistenziale profondamente radicata in ciascuno di noi. Come lei tende a rifugiarsi nel ruolo di “colei che sa”, così noi abitualmente ci culliamo nell’illusione di bastare a noi stessi. Costruiamo le nostre certezze come mura di una fortezza: interpretazioni consolidate, risposte pronte, verità che ci sembrano incrollabili.
Questa presunta autosufficienza si manifesta nei modi più quotidiani: quando diamo giudizi perentori, quando abbiamo già pronta la risposta prima che l’altro finisca di parlare, quando classifichiamo immediatamente ogni esperienza nelle nostre categorie prestabilite. È come se avessimo costruito un sistema di risposte preconfezionate per tenere a bada l’inquietudine delle domande autentiche.
Ma la vita continuamente ci pone davanti a domande che scuotono questa illusoria fortezza. Come il bambino che chiede “dove va la luce”, così l’esistenza ci interpella con questioni che vanno oltre le nostre risposte precostituite: il senso del dolore, il mistero della morte, la natura dell’amore, il significato del tempo che passa. Sono domande che ci raggiungono non come problemi da risolvere, ma come dimensioni da abitare.
È in questi momenti che possiamo fare l’esperienza fondamentale che ha fatto Maria: riconoscere che le nostre risposte non bastano. Questo riconoscimento può essere vertiginoso, come quando si perde improvvisamente l’equilibrio. Ma è proprio questa vertigine a poterci aprire a una dimensione più autentica dell’esistenza.
Il dialogo nasce da questa ferita nella nostra presunta autosufficienza. Non dialoghiamo perché abbiamo delle risposte da scambiare, ma perché condividiamo le stesse domande fondamentali. È come se la vita stessa ci spingesse fuori dalle nostre fortezze individuali verso uno spazio comune di ricerca e ascolto.
In questo senso, il dialogo non è una delle tante possibilità che abbiamo, ma diventa la nostra condizione esistenziale fondamentale. Non è un’attività che scegliamo di fare, ma il modo proprio di essere umani: esseri che, nella loro costitutiva insufficienza, sono chiamati all’incontro con l’altro.
La nostra coscienza vive una condizione singolare: porta in sé un vuoto che mai potrà essere colmato definitivamente, eppure proprio questa incompiutezza perenne è la sorgente della sua vitalità. È come la dinamica del respiro che non cerca mai un riempimento finale, ma vive della sua oscillazione ritmica. Non respiriamo per raggiungere un punto di saturazione e poi fermarci; il respiro è movimento incessante, apertura che si rinnova a ogni istante.
Così accade nella relazione con l’altro. Quando ci apriamo al dialogo autentico, scopriamo che l’incontro non “sistema” una volta per tutte la nostra mancanza. Ogni comprensione raggiunta apre nuovi orizzonti di incomprensione, ogni risposta trovata fa emergere domande più profonde.
Questo vuoto costitutivo non va pensato come una caverna da riempire, ma piuttosto come uno spazio di risonanza dove la voce dell’altro può echeggiare, creando sempre nuove armonie. Abitare questa tensione significa accoglierla come dimensione generativa. Non è un difetto da correggere, ma il luogo stesso dove fiorisce la nostra umanità. È un paradosso vitale: proprio ciò che non potrà mai essere completato diventa fonte di continuo rinnovamento. La nostra incompiutezza non è una maledizione ma una benedizione nascosta, che ci mantiene in un movimento perpetuo di scoperta e trasformazione.

2. La crisi
Quando la coscienza scopre la propria insufficienza costitutiva, l’esperienza assume i caratteri di una vera e propria crisi. È come quando un terreno che credevamo solido inizia improvvisamente a tremare sotto i nostri piedi. L’illusione di bastare a noi stessi, costruita pazientemente negli anni, si incrina come un vetro colpito da una pietra: all’inizio è solo una piccola crepa, ma presto si propaga in ogni direzione.
Questa esperienza ha una sua temporalità peculiare. A volte arriva come un fulmine a ciel sereno: una domanda inattesa di un bambino, una perdita improvvisa, un fallimento che non riusciamo a spiegarci. Altre volte si insinua lentamente, come acqua che goccia dopo goccia erode una roccia apparentemente indistruttibile. In ogni caso, quando questa consapevolezza ci raggiunge, tutto il nostro mondo abituale viene messo in discussione.
Il carattere di crisi si manifesta anzitutto come disorientamento. Le coordinate del nostro stare al mondo perdono la loro affidabilità. È come se improvvisamente la bussola che usavamo per orientarci iniziasse a girare in modo imprevedibile. Le risposte che avevamo sempre dato, i significati che credevamo definitivi, le certezze su cui avevamo costruito la nostra vita: tutto viene attraversato da un tremito sottile ma inesorabile.
In questi momenti la coscienza sperimenta una particolare forma di vertigine. Non è solo il vacillare delle nostre certezze, ma un più radicale scuotimento del nostro modo di essere nel mondo. Scopriamo che la nostra presunta autosufficienza era in realtà un castello di carte, tenuto in piedi dalla nostra ostinazione a non vedere la sua fragilità.
Questa crisi può manifestarsi in modi diversi: come angoscia, come sensazione di smarrimento, come inquietudine che non trova pace. Ma proprio come una febbre che segnala un processo di guarigione in corso, questo momento di crisi può rivelarsi salutare. È attraverso questa incrinatura che può entrare la luce di una comprensione più profonda di noi stessi.
La scoperta della nostra insufficienza, per quanto dolorosa, diventa così porta d’accesso a una dimensione più autentica dell’esistenza. È come se dovessimo perdere la falsa sicurezza dell’autosufficienza per poter scoprire la vera forza che nasce dal riconoscerci costitutivamente bisognosi dell’altro.
In questo senso, la crisi dell’autosufficienza non è un momento da superare il più velocemente possibile, ma un’esperienza da attraversare in tutta la sua profondità. È nel cuore di questa crisi che può nascere un nuovo modo di abitare il mondo: non più nella pretesa illusoria di bastare a noi stessi, ma nell’apertura consapevole al dialogo con l’altro.

3. Dalla mia insufficienza all’insufficienza degli altri
Quando entriamo in un dialogo autentico accade qualcosa di sorprendente: mentre scopriamo la nostra insufficienza, riconosciamo lo stesso tratto nell’altro. Non è una scoperta intellettuale, ma un’esperienza viva che trasforma il modo stesso in cui ci poniamo nella relazione. È come quando due viandanti si incontrano sullo stesso sentiero e scoprono di condividere non solo la strada, ma anche l’incertezza sul cammino.
Questa reciproca scoperta ha una qualità particolare: non è come quando scopriamo che qualcun altro condivide i nostri gusti o le nostre opinioni. È qualcosa di più profondo: riconosciamo nell’altro la stessa fondamentale incompiutezza che abita in noi. È come se improvvisamente vedessimo che le nostre ferite parlano la stessa lingua.
In questo riconoscimento accade una trasformazione significativa. La relazione non si configura più come uno spazio dove ciascuno cerca di colmare le proprie mancanze usando l’altro, ma diventa il luogo dove le insufficienze si incontrano e si riconoscono reciprocamente. È simile a quando due persone, invece di cercare riparo dalla pioggia l’una sotto l’ombrello dell’altra, decidono di bagnarsi insieme, scoprendo in questa condivisione una forma inattesa di pienezza.
La solidarietà che nasce da questa scoperta ha un sapore particolare. Non è la solidarietà di chi si unisce contro qualcosa o qualcuno, né quella di chi si sostiene a vicenda per superare un ostacolo temporaneo. È più simile al modo in cui due canne nel vento si piegano insieme: la loro apparente fragilità, condivisa, diventa la loro forza.
Questo riconoscimento reciproco trasforma anche la natura del bisogno che abbiamo dell’altro. Non è più il bisogno avido di chi vuole prendere qualcosa che gli manca, ma diventa il bisogno grato di chi sa che proprio nella condivisione della propria incompletezza può nascere qualcosa di nuovo e inaspettato. È come quando due voci, ciascuna insufficiente da sola, creano nell’armonia del canto una pienezza che nessuna delle due potrebbe raggiungere individualmente.
In questo modo, l’insufficienza da limite diventa possibilità: non è più ciò che ci separa dagli altri nella vergogna o nel nascondimento, ma ciò che ci permette di incontrarli in uno spazio di autentica condivisione.
Questa forma di solidarietà nella vulnerabilità apre uno spazio relazionale completamente nuovo: non siamo più impegnati a nascondere o compensare le nostre insufficienze, ma possiamo abitarle insieme come il terreno fertile da cui può nascere un’autentica comprensione reciproca.
Conclusione
Al termine di questo percorso, ritorniamo alla svolta antropologica della dialogetica con una comprensione più profonda e articolata. La riflessione svolta ci ha permesso di cogliere come questa svolta non sia semplicemente una nuova metodologia di comunicazione, ma una radicale trasformazione del nostro modo di concepire l’essere umano e le sue relazioni.
La dialogetica, come abbiamo visto partendo dall’esempio di Maria e suo figlio, non è una tecnica da applicare ma un modo di essere che scaturisce dal riconoscimento della nostra costitutiva insufficienza. Questa insufficienza, lungi dall’essere un limite da superare, si rivela come la condizione stessa che rende possibile un autentico incontro con l’altro. La svolta antropologica consiste proprio in questo: nel passaggio da una visione dell’essere umano come entità autosufficiente a una comprensione dell’umano come essere costitutivamente aperto al dialogo.
Il percorso attraverso la crisi dell’autosufficienza, per quanto doloroso, si rivela così necessario per accedere a una nuova dimensione dell’esistenza. È proprio quando le nostre certezze vacillano, quando le risposte precostituite mostrano la loro inadeguatezza, che si apre lo spazio per un dialogo autentico. La dialogetica ci insegna che questa crisi non è un momento da superare frettolosamente, ma un’esperienza trasformativa da abitare consapevolmente.
La scoperta più significativa è forse quella della reciprocità dell’insufficienza: nel momento in cui riconosciamo la nostra incompletezza, diventiamo capaci di vedere la stessa condizione nell’altro. Questa consapevolezza trasforma radicalmente la natura delle nostre relazioni, creando quello che potremmo chiamare un “spazio dialogetico” dove le insufficienze non si contrappongono ma si intrecciano in una trama di significati condivisi.
La svolta antropologica della dialogetica ci porta così a una nuova comprensione dell’umano: non più come soggetto che possiede verità da trasmettere, ma come essere che vive nella tensione continua tra incompletezza e ricerca di senso. In questa prospettiva, il dialogo non è più uno strumento tra i tanti a nostra disposizione, ma diventa il modo stesso in cui l’umano si realizza nella sua autenticità.
Questa visione ha profonde implicazioni per il nostro modo di stare al mondo e di relazionarci con gli altri. La dialogetica ci invita a trasformare la nostra vulnerabilità da debolezza in risorsa, la nostra incompiutezza da limite in possibilità. È in questo senso che la svolta antropologica diventa anche una svolta esistenziale: un nuovo modo di abitare le nostre relazioni, di vivere le nostre domande, di cercare insieme agli altri quelle risposte che nessuno può trovare da solo.
Non siamo isole perfette, ma arcipelaghi di fragilità che si cercano. La nostra incompletezza è l’abbraccio che ci unisce. #dialogetica
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