Anatomia dell’incomprensione

Il fenomeno dell’inaudalgia, dunque, non è qualcosa di transitorio. È un punto di frattura delle dinamiche relazionali e, dal momento della sua insorgenza, si installa nella profondità delle esperienze individuali di comunicazione.

La spina nella carne

Nel fenomeno della incomprensione è possibile individuare almeno tre fasi.

Inizialmente, l’incomprensione si presenta come una sottile incrinatura nella nostra capacità di afferrare il significato dell’altro.

Pensiamo ad esempio a una coppia di amici di lunga data: uno dei due attraversa un periodo difficile e condivide le sue preoccupazioni, ma l’altro, pur ascoltando con attenzione, risponde con consigli pratici quando l’amico cercava solo comprensione emotiva. Questo piccolo disallineamento iniziale può sembrare insignificante, ma rappresenta il primo passo verso un più profondo fraintendimento.

Non è un confine netto che separa la comprensione dalla non-comprensione, ma piuttosto un graduale offuscamento del senso, che scivolando quasi impercettibilmente, si trasforma in fraintendimento.

La nostra coscienza registra questo slittamento come una serie di piccole fratture nel tessuto dell’esperienza condivisa, dove ogni tentativo di raggiungere l’altro sembra creare nuove distorsioni, nuovi strati di significato non inteso che si accumulano come sedimenti di incomprensione.

In questo processo, l’isolamento non si presenta come un evento improvviso, ma come un’esperienza che si insinua gradualmente nella nostra coscienza e che sospinge sempre più sullo sfondo fino a farlo sfumare il mondo intersoggettivo.

La seconda fase della incomprensione è l’estraniamento.

Immaginiamo un giovane professionista che, trasferitosi in un nuovo ambiente lavorativo, inizia a percepire una sottile ma crescente disconnessione con i colleghi. Le battute dell’ufficio gli sembrano sempre meno comprensibili, i riferimenti culturali condivisi gli sfuggono, i momenti di pausa caffè diventano progressivamente più silenziosi e imbarazzanti. Non è un distacco improvviso, ma un lento dissolvimento del senso di appartenenza che prima ci sembrava naturale e immediato. Questo processo si intreccia intimamente con la disconnessione emotiva, dove il tessuto affettivo che ci legava agli altri si assottiglia fino a diventare quasi impalpabile, come se si cominciasse a osservare il mondo sociale come attraverso un vetro sempre più opaco. Non è un distacco improvviso, ma un lento dissolvimento del senso di appartenenza che prima ci sembrava naturale e immediato. Questo processo si intreccia intimamente con la disconnessione emotiva, dove il tessuto affettivo che ci legava agli altri si assottiglia fino a diventare quasi impalpabile.

La coscienza registra l’esclusione non come un singolo evento traumatico, ma come una serie di micro-fratture nella trama dell’esperienza sociale. Il disallineamento si manifesta inizialmente come una leggera asincronia nei ritmi dell’interazione, un essere leggermente “fuori tempo” rispetto al flusso sociale, che gradualmente si amplifica fino a diventare una vera e propria dissonanza esistenziale.

Il terzo momento della incomprensione è la marginalizzazione. Consideriamo il caso di uno studente universitario che, dopo una serie di esperienze di incomprensione e isolamento, sviluppa una vera e propria “identità marginale”. Inizia a evitare le attività di gruppo, sceglie sistematicamente di lavorare da solo sui progetti, siede sempre in fondo all’aula. Non si tratta più di singoli episodi di esclusione, ma di un modo strutturato di porsi ai margini della vita universitaria. Le rare volte in cui tenta di partecipare più attivamente, la sua stessa aspettativa di essere “fuori posto” lo porta ad agire in modo esitante e impacciato, confermando involontariamente la sua posizione periferica. È come trovarsi su una spirale che, rotazione dopo rotazione, ci porta sempre più lontano dal punto di convergenza dell’esperienza condivisa. La marginalizazione, dunque, emerge dalla sedimentazione delle esperienze di incomprensione nella nostra coscienza, non come una posizione statica ai margini del sociale, ma come un continuo movimento centrifugo che ci allontana dal centro della vita intersoggettiva. È come trovarsi su una spirale che, rotazione dopo rotazione, ci porta sempre più lontano dal punto di convergenza dell’esperienza condivisa.

In questa fase, l’incomprensione si cristallizza in strutture più stabili del nostro modo di essere-nel-mondo. Non si tratta più solo di singoli episodi di fraintendimento o di momenti di estraniamento, ma di una riconfigurazione più profonda del nostro rapporto con l’orizzonte intersoggettivo. La marginalizzazione diventa una lente attraverso cui leggiamo ogni nuova interazione sociale, una predisposizione che tende ad autoconfermarsi e autoalimentarsi.

La marginalizzazione porta con sé una particolare temporalità che riconfigura profondamente il nostro modo di vivere il tempo. Il futuro appare sempre più come una ripetizione del presente di incomprensione, una serie infinita di variazioni sullo stesso tema dell’esclusione. Non si tratta di un semplice pessimismo o di una previsione negativa, ma di una vera e propria ristrutturazione dell’orizzonte temporale in cui il futuro perde la sua qualità di apertura alle possibilità per diventare lo spazio di una ripetizione apparentemente inevitabile.

Parallelamente, il passato di appartenenza alla comunità assume i contorni sfumati di qualcosa di irrimediabilmente perduto. Quei momenti in cui la comprensione reciproca sembrava fluire naturalmente, in cui ci si sentiva parte integrante del tessuto sociale, acquisiscono una qualità quasi mitica, come appartenenti a un’epoca dorata ormai irraggiungibile. Questo non è un semplice ricordo nostalgico, ma una trasformazione del modo stesso in cui il passato si presenta alla coscienza: da fonte di esperienze a cui attingere per il presente, diventa testimonianza di una modalità di esistenza che sembra ormai preclusa.

Il presente, stretto tra questo futuro di ripetizione e questo passato idealizzato, si configura come uno spazio di perpetua transizione che paradossalmente non conduce da nessuna parte. Si crea così un circolo vizioso dove l’aspettativa dell’incomprensione genera comportamenti che la rendono più probabile.

Questa dinamica contribuisce a solidificare quella che inizialmente era solo una temporanea dissonanza in una più duratura condizione di marginalità. È come se il tempo stesso collaborasse a cristallizzare la nostra posizione periferica: ogni nuova esperienza di incomprensione conferma le nostre aspettative, rafforzando ulteriormente la struttura temporale che le ha generate.

Si instaura così una sorta di “profezia che si autoavvera” esistenziale, dove il modo stesso in cui anticipiamo il futuro plasma il nostro presente in una direzione che conferma quelle anticipazioni. La temporalità della marginalizzazione diventa una gabbia invisibile che, proprio perché costruita dalle nostre aspettative e dai nostri modi di interpretare l’esperienza, risulta particolarmente difficile da riconoscere e ancora più difficile da modificare.

Spezzare questo circolo richiede non solo un cambiamento nei comportamenti o nelle interpretazioni, ma una vera e propria ristrutturazione del nostro modo di abitare il tempo: ritrovare l’apertura del futuro, riconnettere il passato come risorsa viva per il presente, e soprattutto recuperare nel presente quella dimensione di possibilità che la marginalizzazione tende a oscurare.

Dal sottile fraintendimento alla spirale dell’isolamento: l’incomprensione non è un evento, ma un processo che trasforma il nostro modo di abitare il tempo e lo spazio sociale.

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