Lo sguardo bifronte. Per una grammatica della contraddizione

Ci sono parole che ritornano con ostinazione quando l’esperienza umana si trova sul crinale: non per illuminare, ma per rendere visibile la zona d’ombra che ogni illuminazione comporta. Una di queste parole è contraddizione. La incontriamo nei momenti in cui ciò che siamo, ciò che sentiamo e ciò che pensiamo non coincidono più, oppure si dispongono secondo linee divergenti, incapaci di ricomporsi in una narrazione unitaria. In quei frangenti, ogni tentativo di sintesi suona stonato, ogni appello alla coerenza appare frettoloso, ogni risposta si rivela prematura. Eppure, nonostante la densità di questi momenti, la nostra cultura continua a educarci alla rimozione dell’ambivalenza, al disprezzo dell’incertezza, alla fuga dal dubbio. Come se la chiarezza, intesa nel senso più scolastico del termine, fosse l’unica via lecita verso il sapere. Come se l’ambiguità fosse solo una forma patologica della mente.

Ma esistono esperienze che non possono essere nominate senza smarrire parte del loro nucleo, esperienze che ci chiedono di sostare, di non spiegare troppo in fretta, di non ridurre. È in questa zona di resistenza alla semplificazione che si colloca ciò che Albert Rothenberg ha chiamato “pensiero gianusiano”, una struttura della mente creativa capace di tenere insieme gli opposti, di coabitare con essi senza ridurli a sintesi, senza neutralizzarli. Nel suo libro The Emerging Goddess, Rothenberg ha analizzato numerosi processi creativi di artisti, scienziati e scrittori, giungendo a una conclusione sorprendente: il cuore della creatività non sta nella soluzione, ma nella tensione mantenuta, nella capacità di vivere il conflitto interno come risorsa, non come ostacolo.

Il termine “gianusiano” fa riferimento alla figura di Giano, dio romano delle soglie e dei passaggi, raffigurato con due volti rivolti in direzioni opposte: uno verso il passato, l’altro verso il futuro. Eppure, entrambi i volti appartengono alla stessa testa, allo stesso corpo, alla stessa intenzione di stare in quel punto instabile dove due direzioni divergono senza dissolversi l’una nell’altra. Rothenberg mostra come questa struttura sia presente in molte opere d’arte capaci di resistere al tempo. La Gioconda, ad esempio, porta in sé la dolcezza e il distacco, la tenerezza e l’ironia, il pudore e l’ambiguità del desiderio. Ma potremmo anche evocare il Don Giovanni mozartiano, dove la gioia sensuale della vita e la vertigine della fine si intrecciano senza mai esaurirsi; o ancora il Faust di Goethe, diviso tra brama di sapere e disperazione esistenziale. In tutti questi esempi, la grandezza dell’opera non sta nella chiarezza del messaggio, ma nella sua stratificazione, nella capacità di ospitare tensioni che non si sciolgono ma restano.

Questa capacità di ospitare l’ambivalenza è anche ciò che John Keats chiamava, con straordinaria lucidità, “capacità negativa”. In una lettera ai fratelli George e Thomas del 21 dicembre 1817, scrive: “quando un uomo è capace di essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”, allora egli possiede questa negative capability, che per Keats era propria degli uomini completi. Non si tratta di elogiare la confusione, ma di riconoscere che non tutto ciò che è umano si lascia ordinare secondo categorie stabili. Che esiste una forma del sapere che nasce non dalla padronanza, ma dall’esposizione, dalla disponibilità a essere trasformati da ciò che si incontra.

Anche il ricordo, in questa prospettiva, smette di essere semplice rievocazione del passato e diventa un luogo di metamorfosi. Goethe, in una delle sue riflessioni più intense, scrive: “Ciò che di grande, bello, significativo incontriamo nella vita non ha da esser circondato, quasi immesso nel cuore dal di fuori; fin dal suo sorgere deve intessersi col nostro cuore… foggiare in noi un nuovo e migliore io”. Non ricordiamo per archiviare, ma per permettere al passato di agire nel presente, per fare spazio a ciò che non è più, eppure continua a operare in noi. Il grande, il bello, il significativo non si depositano in superficie, ma scavano, modellano, a volte in modo impercettibile, la forma che assumiamo.

Ci chiediamo: come stare dentro ciò che non coincide? Come pensare senza fuggire la contraddizione? Come ascoltare un’opera, una persona, un evento, senza volerlo subito classificare? Se oggi attribuiamo valore assoluto alla velocità e facciamo della trasparenza una religione, proporre una pedagogia dell’ambiguità suona quasi provocatorio. Ma forse non è proprio questo il compito della filosofia, dell’arte, e in fondo di ogni forma alta di pensiero: restituire alla coscienza lo spazio in cui possa risuonare ciò che non torna, ciò che sfugge, ciò che non si chiude?

Pensare non è risolvere. Pensare, nelle sue forme più profonde, è restare. Restare accanto a ciò che inquieta, a ciò che non si lascia dire con precisione, a ciò che ci eccede. Restare, non come atto passivo, ma come gesto attivo di cura, di custodia, di apertura. Giano non sceglie quale direzione guardare: le tiene entrambe. E noi, forse, possiamo imparare da lui a non cercare salvezze premature, ma a esercitare quello sguardo bifronte che solo ci consente di abitare il presente senza violentarlo.

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