PRO-LOGO
Bisogna esporre una filosofia coinvolgente e coinvolgere all’attività di questa filosofia. Adriano Fabris

«Accadde in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il clown uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo” (Kierkegaard & Fabro, 2013, pag. 129).
È il 1843 quando Kierkegaard scrive queste parole.
Da un certo punto di vista, dunque, il brano rappresenta un’indicazione datata. Eppure, proprio quelle parole mi sembrano efficacissime per descrivere lo scenario in cui oggi sono coinvolti l’etica applicata ed il filosofo morale. Per questo, forse non è del tutto inutile provare a rendere più esplicita quella indicazione, tentare di addentrarsi in essa per cercare, almeno in parte, di vedere meglio le figure implicate e le loro azioni possibili.
Il clown è, appunto, chi ha da dare un annuncio, chi è spinto a parlare dopo aver visto qualcosa le cui conseguenze possono riguardare tutti. Egli si espone, esce allo scoperto, dato che la posta in gioco è troppo alta. Lo immaginiamo mentre solleva le tende del palcoscenico e prova a catturare l’attenzione della platea. Il clown dà il suo annuncio, con voce preoccupata.
Il testo di Kierkegaard si interrompe proprio a questo punto, autorizzando – mi sembra – a proseguire nel racconto, immaginando gli scenari più plausibili. Ho sempre pensato che il pubblico non avrebbe reagito all’unisono. Soprattutto quando riferiamo questo racconto a ciò che succede nel campo della filosofia, mi sembra che si potrebbero immaginare almeno cinque tipi di uditorio.
Una parte del pubblico, di fronte alle parole del clown, reagisce iniziando ad applaudire. Lo dice già Kierkegaard. Probabilmente pensano che il regista abbia avuto una trovata geniale nel fare iniziare lo spettacolo in un modo così inconsueto. Applaudono e rimangono seduti. Il dubbio che le cose stiano in altro modo non li sfiora neanche. Sono fermi, irremovibili, ancorati in modo inespugnabile alle proprie certezze.
Il teatro brucia, nel frattempo.
Un’altra parte del pubblico inizia a parlottare. Se fossimo in grado di ascoltare i loro discorsi ci accorgeremmo che stanno provando a ricordare l’esatta sequenza delle parole pronunciate dal clown in modo da risalire alla loro etimologia. Tra di loro, qualcuno ricorderebbe come proprio quelle parole ricorrano in pagine decisive di alcuni autori del passato ed inizierebbe probabilmente a commentarle, nella compunzione degli altri membri del gruppo.
Il teatro brucia, nel frattempo.
Un’altra parte dell’uditorio, continuando a rimanere seduta, inizierebbe una discussione accalorata nel tentativo di chiarire le condizioni di verità del discorso del clown.
Il teatro brucia, nel frattempo.
In fondo alla sala, in piedi, separate dal resto della platea non volendo orgogliosamente confondersi con essa, si scorgono poche figure solitarie che, puntando l’indice a destra e a sinistra, si fanno beffa dei presenti. Mentre il fumo riempie il teatro, gridando a gran voce, rivendicano orgogliosamente la propria indipendenza.
Il teatro brucia, nel frattempo.
Infine, un gruppo sparuto di spettatori, udite le parole del clown, decide che è il caso di uscire dal teatro il più velocemente possibile. Essi non escludono che le parole ascoltate possano coincidere con un originale incipit della rappresentazione teatrale, ma sanno bene che non si può correre il rischio di rimanere ustionati. Al tempo stesso, i membri di quest’ultimo gruppo non negano l’interesse di una interrogazione esegetica delle parole del clown o di una verifica delle loro condizioni di verità. Essi ritengono però che l’emergenza annunciata dal clown sia tale da richiedere l’adozione di misure specifiche, a partire da una trasformazione della loro postura. Essi, dunque, abbandonano le comode poltrone a loro riservate, si alzano ed escono dal teatro.
Fuori, piove. La pioggia cade con ritmo incessante, avvolgendo l’intero teatro. Posti finalmente a distanza di sicurezza dall’edificio in fiamme, mentre un fumo bianco si solleva in alto facendosi spazio nella pioggia cadente, osservano muti la scena.
La filosofia come ascolto dell’annuncio
Il punto in cui gli spettatori superstiti decidono di capire cosa sia successo è il punto di partenza del libro che avete nelle mani.
La voce del clown è la voce dei contesti in cui si annuncia una emergenza. Non necessariamente quella voce coincide con quella di un filosofo. Possono esserci molte voci in grado di farsi interpreti dei bisogni e delle urgenze del mondo in cui viviamo. Se chi dà voce ai contesti, dunque, non necessariamente è il filosofo, chi invece dovrebbe essere in grado di farsi carico di chiarire il senso di quelle emergenze nel tentativo di porvi rimedio è senz’altro il filosofo. Rispetto ad un tale compito, possono esserci atteggiamenti più o meno appropriati nella misura in cui essi sono in grado di fornire risposte e soluzioni alle emergenze. Questa maggiore o minore appropriatezza di risposte, teorie e pratiche, è ciò che, in fondo, motiva i diversi atteggiamenti dell’uditorio. Non si tratta di reputare corretti o sbagliati quegli atteggiamenti in termini assoluti. Ciascun atteggiamento tra quelli richiamati in precedenza, preso singolarmente, ha la sua intangibile dignità e non è mio proposito di trascurare tale aspetto. Al tempo stesso, non possiamo esimerci dal constatare che se noi riferiamo quegli atteggiamenti alle parole del clown allora non tutti gli atteggiamenti possiedono lo stesso livello di appropriatezza.
Allora, il punto diventa: possiamo oggi fare filosofia e, nello specifico, fare etica facendo finta che il clown non abbia parlato? Possiamo veramente ritenerci al riparo da una assunzione di responsabilità rispetto a ciò che egli ha segnalato? Possiamo esonerare noi stessi dal farci carico di una soluzione di quelle emergenze? Possiamo, in ultima analisi, fare filosofia a prescindere dalle voci che segnalano la presenza di un incendio?
Non mi sorprenderebbe se qualcuno rispondesse di “sì” a queste domande. Anzi, tale possibilità è il motivo per cui ho deciso di scrivere questo libro il cui proposito è di cercare di comprendere le ragioni di coloro di cui non posso condividere l’operato. Scrivo, dunque, per cercare di capire più che per polemizzare.
Nelle pagine seguenti, cercherò di mettermi al fianco dell’ultimo gruppo di spettatori, i salvati, coloro che sono usciti dal teatro e che ora cercano di trovare una spiegazione. Li seguirò, dunque, quando nel capitolo uno, guardandosi intorno, si confronteranno con dieci situazioni tipiche della vita quotidiana in cui è inaspettatamente richiesto il coinvolgimento dell’etica. Se, dunque, l’etica è richiesta da molte situazioni in cui siamo coinvolti ogni giorno, per quale motivo sembra che il lavoro dei filosofi sia trasparente? Che cosa ne è del lavoro di migliaia di studiosi di filosofia? Perché riesce ad incidere sui contesti solo in pochissimi casi? È colpa dei contesti che sono diventati impermeabili alle sollecitazioni dei filosofi o è colpa dei filosofi che non riescono a farsi comprendere? Insomma, che cosa c’è alla base di questa indifferenza nei confronti della filosofia e dell’etica in particolare? A queste domande, i salvati potranno trovare qualche risposta nel capitolo due, facendo i conti con il contesto in cui oggi è consentito ai filosofi di professione di lavorare. Un errore da evitare, infatti, è di pensare la filosofia ed il lavoro dei filosofi in abstracto. Se, invece, vogliamo seriamente interrogarci sulle potenzialità ed i limiti della filosofia dobbiamo cercare di fare la più esatta ricognizione possibile delle condizioni in cui oggi è dato lavorare ai filosofi. Per questo, prenderemo in esame tre aspetti: la digitalizzazione, la valutazione dell’operato dei filosofi e le trasformazioni del potere.
Dopo aver considerato dunque i connotati del presente, il nostro gruppo di spettatori giungerà a vedere il divario (il gap del titolo) tra le teorie e le pratiche. È quanto mi propongo di fare nel capitolo tre, provando non solo a fare una diagnosi dell’esistente, ma anche – per quanto possibile – a delineare una prognosi, in direzione di una sempre maggiore circolarità tra le teorie e le pratiche.
Nella seconda parte del volume, Spettri, gli spettatori potranno visitare diversi contesti con cui quella prognosi viene misurandosi. Gli spettri ovviamente non sono i fantasmi dell’etica, ma le sue possibili declinazioni nelle pratiche. Non nascondo, tuttavia, come anche l’accezione più minacciosa della parola “spettri”, quella che la avvicina ad una apparizione spaventosa, non sia del tutto aliena dalle mie intenzioni. L’etica, infatti, quando non è in grado di portarsi nei contesti, rischia veramente di essere una presenza eterea e, se ciò accade, essa fa il gioco di coloro che vorrebbero ridurla al silenzio.
Quanto scritto fino a questo punto mi pare che renda sufficientemente esplicito quale sia il mio proponimento. Non intendo scrivere un trattato di storiografia filosofica dedicato al tema del rapporto tra teoria e prassi, uno dei temi più dibattuti nella storia del pensiero. Intendo invece dare voce a quella parte di tradizione filosofica che ha avuto modo di vedere personalmente il gap cui il titolo del libro è dedicato. Per questo motivo, nella prima parte del volume il dialogo sarà condotto soprattutto con autori contemporanei, soprattutto Rawls e MacIntyre. Ovviamente, i lettori più esperti sapranno individuare nelle pieghe dei discorsi il debito di gratitudine nei confronti di alcune pagine di Aristotele, di Gadamer o di alcuni momenti della Rehabilitierung der praktischen Philosophie, solo per citarne alcuni. Nella seconda parte del libro, il dialogo coinvolgerà altri autori: nei capitoli 4 e 5 in cui mi interrogo sulla trasformazione delle forme della politica e della comunicazione, farò riferimento a Humboldt e Lévinas; nel capitolo 6, dedicato a riflettere sulle forme dell’umano in alcuni aspetti del dibattito sul transumanesimo, un riferimento imprescindibile sarà la Metafisica di Aristotele. Nel capitolo 7, nel ragionare sul rapporto medico-paziente e sul cosiddetto principio di convenienza altruistica un riferimento esplicito sarà fatto al pensiero di Buber ed uno implicito all’utilitarismo. Infine, sembra perfino superfluo evidenziare come nel capitolo 10 il protagonista sia il pensiero di Leibniz. Perfino in questo caso, tuttavia, il lettore non troverà un trattato filosofico in cui sia ripercorso il pensiero dell’autore della Monadologia proprio perché, sia nel caso del filosofo di Lipsia che nel caso degli altri autori classici citati, non è questo lo scopo che mi prefiggo.
La «filosofia coinvolgente», citata nell’esergo di questo capitolo, richiede che ognuno di noi prenda posizione. E, dunque, se in una fredda serata di pioggia, ci fossimo trovati anche noi in quel teatro ad ascoltare l’annuncio del clown, a quale gruppo di spettatori avremmo aderito?

Introduzione del volume Mind the Gap. L’etica oltre il divario tra teorie e pratiche (Ets 2020)