Giovanni Scarafile
Recensire questo libro è compito facile ed insieme difficile. Facile perché, secondo il senso comune, tutti hanno una certa dimestichezza con la malinconia, avendola sperimentata in qualche momento della propria vita. L’Autore, invece, di contro a letture solo psichiatriche o estetizzanti o alle blaterazioni del senso comune, rivendica la necessità di una interrogazione filosofica della malinconia in grado di svelarne il senso metafisico. Essa allora diviene “qualcosa dove più che altrove si manifesta la criticità della nostra condizione umana” (p. 33).
Ma perché questo riconoscimento avvenga è necessario che l’uomo accetti di porsi di fronte a se stesso. Contrariamente a quanto possa sembrare, l’instaurarsi di tale disposizione è quanto mai difficile in quanto è reale il pericolo che gli uomini, occupati nelle mille faccende del vivere o borghesemente assorbiti nelle vanità sociali, possano manifestare indifferenza verso la ricerca di ciò che veramente vale.
Tutto ciò, simile peraltro al divertissement di Pascal, viene descritto come segue: “si cerca di trovare nelle cose quel peso, quella serietà… quella forza compiuta delle quali ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore che anela all’assoluto” (p. 38). Deluso dalla transitorietà delle cose, l’uomo che guarda se stesso, riconoscendo la sua strutturale miseria, si ritrova nel regno della malinconia. L’uomo malinconico diventa vulnerabile: “quel che ferisce è… quel che nella vita vi è di ineluttabile, …la sofferenza degli inermi e dei deboli… Il fatto che non vi si può cambiare nulla, che non si può toglierla di mezzo” (p. 37).
Inoltre, “chi abbia conosciuto quell’altra regione – la malinconia, appunto – non saprà più vivere, in maniera definitiva, se non insieme con persone e con pensieri che siano a contatto con quelle profondità” (p.59); per questo egli ricerca la quiete, “un’atmosfera spirituale che gli consente di ripigliar fiato, che allevia e rassicura” (p. 50).
Il senso della perfezione è il lui talmente alto che esternamente insoddisfatto delle proprie creazioni. Valgono per lui le parole di Leopardi: “quasi tutti gli uomini grandi sono modesti, perché invece di paragonarsi agli altri, aspirano all’idea del perfetto che hanno dinanzi allo spirito, e considerano quanto siano lontani dal conseguirlo”. Ed è proprio l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza all’infinito a segnare il passaggio alla dimensione verticale della malinconia. “Essa è l’oppressione interiore che deriva dalla prossimità dell’eterno, dal fatto che l’eterno urge per essere realizzato… È l’esigenza di assumere nella vita propria il contenuto dell’infinito; di esprimerlo nel proprio atteggiamento interiore e nell’azione”.
L’impressione che si ricava da questo agile libello è che la malinconia sia, in qualche modo, simile a ciò che Totò definiva ’a livella: la possibilità per ogni uomo nonostante le differenze di condizione sociale o credo religioso di sublimare la propria esistenza. Infatti, sia che si riconosca la malinconia la contiguità con l’infinito-Dio, sia che se ne esaurisca il senso di una dimensione orizzontale, essa offre all’uomo la possibilità di trascendere la finitudine: configurandosi come neo visage d’Autre, di levinasiana memoria, nel primo caso; facendo spontaneamente scaturire, della già richiamata sensibilità per la sofferenza altrui, la spinta per trasformare la propria esistenza in un gratuito essere-per-gli-altri, nel secondo caso.
A convincere l’uomo di quanto fallace sia la realizzazione di sé nell’insufficienza delle cose, scriveva ne La ripresa Kierkegaard: “Una mattina, già levarmi dal letto, mi sentii in uno stato di insolito benessere; quel senso di benessere continuò a crescere per tutta la mattina; all’una in punto aveva toccato il vertice più alto… La mia andatura era leggera come ondeggia la semente mossa dal vento, come si culla ubriaco di nostalgia il mare, come trascorrono trasognate le nubi. Tutta l’esistenza era, come dire, innamorata di me; tutto in me augurale, tutto misteriosamente trasfigurato nella mia microcomica beatitudine… Come dicevo, all’una in punto avevo toccato il vertice più alto…; Ed ecco, all’improvviso, qualcosa incomincia a prudermi in un occhio. Che cosa fosse, un ciglio, una piuma, un pulviscolo, io non lo so: in quell’istante preciso, piombai nel baratro della disperazione”.
(pubblicato su Ricerca, Anno VII, n. 7-8, Ago – Set 1991)