Invece di perpetuare un ciclo di malintesi e alienazione, la “pratica della condivisione consapevole” apre le porte alla comprensione profonda e alla solidarietà emotiva. Con il tempo, diviene possibile non solo rispondere in maniera più adeguata alle necessità altrui, ma anche anticiparle, creando un ambiente di sostegno reciproco e di crescita condivisa. In questo modo, il tessuto delle relazioni interpersonali si arricchisce, e la comunità si fortifica contro le spire distruttive della violenza comunicativa.
La spina nella carne, p. 137

La nozione di «Vergemeinschaftung»
Appartiene all’esperienza comune il fatto di sentirsi incompresi nelle relazioni con gli altri. In particolare, ciò che sperimentiamo è una coscienza di una progressiva perdita di connessione con l’orizzonte intersoggettivo che costituisce il nostro mondo-della-vita [1].
Tale perdita viene indicata nel §49 delle Meditazioni Cartesiane laddove Husserl sta descrivendo come passiamo da una prospettiva puramente individuale (soggettiva) alla comprensione di un mondo oggettivo condiviso, attraverso l’incontro e il riconoscimento degli altri. Il punto di partenza è il mondo primordiale dove hanno sede le nostre esperienze personali ed individuali del mondo. La scoperta dell’altro – che Husserl definisce come il primo “non-io” – costituisce il primo gradino per uscire dal nostro mondo puramente soggettivo. Nell’incontro con altri, il nostro mondo primordiale si trasforma attraverso una stratificazione di senso e gradualmente viene costituendosi l’idea di un mondo oggettivo, che vale per tutti e non solo per me.
Gli altri non restano individui isolati, ma si forma una comunità di io che include anche me stesso e questa comunità costituisce un unico mondo condiviso. È come un’orchestra dove ogni musicista (monade) suona il proprio strumento con la sua particolare sonorità e interpretazione, ma insieme creano una sinfonia armoniosa e coerente. Secondo Husserl, questo processo avviene attraverso quella che lui definisce un’«armonia delle monadi», ovvero una costituzione singola ma armonica nelle singole soggettività, proprio come ogni musicista mantiene la sua individualità pur contribuendo all’armonia complessiva. Questa armonia si sviluppa nel tempo, come un ensemble che impara gradualmente a suonare insieme, affinando l’ascolto reciproco e la capacità di coordinarsi. Il risultato finale è ciò che Husserl chiama un “noi trascendentale”: non più solo singoli musicisti che suonano isolatamente, ma un’orchestra unita che crea una musica condivisa e comprensibile per tutti. Questa musica rappresenta il nostro mondo comune, un mondo che acquista senso proprio attraverso questa performance collettiva.
In questo contesto, Husserl fa riferimento alla nozione di comunalizzazione (Vergemeinschaftung), per indicare l’azione di trasformare qualcosa in una comunità o il processo stesso di formazione di una comunità. Il passo a cui mi riferisco è il seguente: «l’intersoggettività trascendentale possiede, mediante questa comunalizzazione, una sfera intersoggettiva peculiare, in cui si costituisce intersoggettivamente il mondo obiettivo» (tr. it. Bompiani, Milano 1960, p. 132).
Questo processo di comunalizzazione può essere compreso come un movimento dinamico attraverso il quale le esperienze individuali si intrecciano e si fondono in un tessuto di significati condivisi. Non si tratta di una semplice somma di prospettive individuali, ma di una vera e propria trasformazione qualitativa dell’esperienza. È come quando una conversazione profonda tra due persone genera intuizioni e comprensioni che nessuno dei due interlocutori avrebbe potuto raggiungere da solo: la comunalizzazione crea qualcosa di nuovo che trascende le singole prospettive pur nascendo da esse.
Il concetto di Vergemeinschaftung implica anche una dimensione attiva e processuale: non è uno stato dato una volta per tutte, ma richiede un continuo lavoro di sintonia e aggiustamento reciproco. Questo aspetto dinamico è cruciale perché suggerisce che il mondo oggettivo non è semplicemente “là fuori” in attesa di essere scoperto, ma viene continuamente ricostituito attraverso i processi di comprensione e comunicazione intersoggettiva.
Dunque, nei momenti di incomprensione sperimentiamo una disconnessione, la perdita di questa comunalizzazione. Quando ci sentiamo incompresi, è come se temporaneamente si interrompesse quel delicato tessuto di significati condivisi che Husserl descrive nel §49 delle Meditazioni Cartesiane. Non è solo un fallimento comunicativo superficiale, ma una vera e propria frattura nell’armonia delle monadi che costituisce il nostro mondo intersoggettivo.
Riprendendo la metafora dell’orchestra, è come se improvvisamente un musicista perdesse il tempo comune e non riuscisse più a sincronizzarsi con gli altri: la sua musica, pur mantenendo una sua validità individuale, non riesce più a integrarsi nella sinfonia collettiva. Questa desincronizzazione genera un senso di estraneità e isolamento che va ben oltre il semplice disagio comunicativo.
L’esperienza dell’incomprensione rivela così la fragilità della nostra partecipazione al “noi trascendentale”. Ci fa toccare con mano come quella che normalmente viviamo come una connessione naturale e spontanea con gli altri e con il mondo oggettivo sia in realtà il frutto di un delicato processo di sintonia intersoggettiva, che può temporaneamente incrinarsi. In questi momenti, rischiamo di ricadere in quello che Husserl chiamerebbe il nostro “mondo primordiale”, perdendo l’accesso a quella dimensione di significati condivisi che rende possibile la nostra esperienza di un mondo comune.
Questa disconnessione può manifestarsi in vari gradi: dal momentaneo malinteso fino a forme più profonde di alienazione sociale, dove il soggetto sperimenta una radicale difficoltà nel partecipare alla costruzione condivisa del senso del mondo.
Non è una remota eventualità, a pensarci bene. È, piuttosto, qualcosa che ci capita ogni giorno e numerose volte: nella piccola incomprensione con il partner durante la colazione, nel malinteso con un collega su una email apparentemente chiara, nel disaccordo con un amico su come interpretare le parole di un altro, nelle discussioni familiari dove sembra che ognuno parli una lingua diversa pur usando le stesse parole. Generalmente, è facile dare la colpa agli altri e, certo, non è escluso che sia così. “Non mi capiscono”, “non fanno lo sforzo di mettersi nei miei panni”, “sono troppo presi dai loro pregiudizi per vedere le cose dal mio punto di vista” – sono tutte reazioni comuni e comprensibili.
Tuttavia, ancora prima di addebitare le colpe è importante considerare le dinamiche con cui questo fenomeno si verifica, perché il riconoscere e analizzare le cause della nostra incomprensione aiuta a chiarire non solo come gli altri ci percepiscono, ma anche come noi interpretiamo il mondo intorno a noi. Questa consapevolezza può trasformare le relazioni interpersonali da occasioni di conflitto in opportunità di crescita.
Quando ci fermiamo a riflettere sui momenti di incomprensione, spesso scopriamo che non si tratta semplicemente di un fallimento comunicativo, ma di una più profonda divergenza nei modi di dare senso all’esperienza. Ciò che per noi è ovvio e “naturale” può risultare oscuro o persino incomprensibile per gli altri, non per cattiva volontà, ma perché ciascuno di noi porta con sé un intero mondo di riferimenti, esperienze e presupposti che colorano il modo in cui interpretiamo la realtà.
Riconoscere questa dimensione più profonda dell’incomprensione ci permette di approcciarla non come un fastidioso ostacolo da superare il più rapidamente possibile, ma come un’opportunità preziosa per espandere la nostra comprensione di come gli altri vedono il mondo oppure per mettere in discussione i nostri presupposti apparentemente “ovvi”.
In questo senso, l’incomprensione può diventare paradossalmente uno strumento di crescita personale e relazionale, un invito a uscire dal nostro “mondo primordiale” per partecipare più consapevolmente alla costruzione di quel mondo condiviso che rende possibile una vera comunicazione.
Ogni incomprensione è un invito: dal mio mondo al nostro mondo.
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#Filosofia #dialogo #dialogetica
[1] Per un’analisi contemporanea del tema, cfr. Zahavi D., Self and Other: Exploring Subjectivity, Empathy, and Shame, Oxford University Press, Oxford 2014; Ratcliffe M., Experiences of Depression: A Study in Phenomenology, Oxford University Press, Oxford 2015; e Fuchs T., “The Phenomenology of Shame, Guilt and the Body in Body Dysmorphic Disorder and Depression”, in Journal of Phenomenological Psychology, 33(2), 2002.
