La scuola è un bene democratico?

La domanda non è nuova, eppure ogni volta che la si formula mantiene intatta la sua capacità di destabilizzare. Siamo talmente abituati a rispondere “sì” che non ci chiediamo più cosa comporti quel sì. Diamo per scontato che la scuola sia un bene democratico, perché così recita la tradizione repubblicana, perché sostanzialmente lo afferma la Costituzione, perché è una delle convinzioni che legittimano la nostra identità civica. Ma davvero basta ripetere la formula per renderla vera? Davvero basta dire che la scuola è un bene democratico perché essa lo sia, nei fatti, nelle pratiche, nelle politiche che la riguardano?

La questione non è oziosa. Parlare della scuola come bene democratico significa innanzitutto riconoscere che il suo valore non dipende soltanto dal numero di studenti iscritti o dalla quantità di nozioni trasmesse, ma dal modo in cui essa riesce a incarnare e a trasmettere i principi della vita democratica: la pluralità delle voci, il confronto aperto, il diritto di parola, la responsabilità reciproca. La democrazia, infatti, non è soltanto una forma di governo: è uno spazio di convivenza che si alimenta di discussione e di partecipazione. Se la scuola non fosse più capace di questo, allora non sarebbe un bene democratico, ma solo un servizio amministrato.

È quindi inevitabile che, una volta posta, la domanda si sdoppi. Da un lato, chiediamo: in che senso la scuola è, o può essere, un bene democratico? Dall’altro, ci chiediamo: e se non lo fosse? Che cosa comporterebbe rispondere “no”?

Rispondere “sì” è la via maestra. È il richiamo a un’idea della scuola che ha accompagnato le grandi riforme del Novecento: la scuola aperta a tutti, gratuita, capace di ridurre le diseguaglianze, di offrire a ciascuno la possibilità di diventare cittadino. È la scuola che educa non soltanto a leggere, scrivere e far di conto, ma a pensare criticamente, a convivere con chi è diverso, a discutere senza violenza. È la scuola che mantiene viva la domanda sul senso dell’educazione, rifiutando di ridurla a mero addestramento.

Ma proprio quando la risposta sembra ovvia, la provocazione acquista forza: e se dicessimo “no”? Se riconoscessimo che la scuola, oggi, non è trattata come un bene democratico? Se ammettessimo che la retorica pubblica, nel rivendicarne la funzione democratica, si scontra con pratiche e politiche che vanno nella direzione opposta?

Ecco il punto: provare a rispondere “no” non significa negare la tradizione o contraddire i principi costituzionali. Significa guardare in faccia le contraddizioni e nominare ciò che spesso si preferisce tacere. Significa, in altre parole, accettare che dire “la scuola è un bene democratico” sia oggi più un atto di desiderio che una constatazione di fatto.

Dunque:

1. la scuola non è un bene democratico perché oggi la sua voce è marginale nei processi decisionali che la riguardano. Le riforme vengono calate dall’alto, elaborate in sedi tecnocratiche, legittimate da rapporti di esperti o da vincoli di bilancio più che da un confronto pubblico. Gli insegnanti sono destinatari, non interlocutori; gli studenti vengono evocati come giustificazione, non ascoltati come protagonisti o, peggio, illusi da responsabilità che non competono loro[1]. Una democrazia che esclude la partecipazione reale di chi vive quotidianamente la scuola, che democrazia è?;

2. La scuola non è un bene democratico perché oggi è trattata con logiche aziendalistiche che riducono la complessità dell’educazione a performance misurabili. Le classifiche internazionali diventano la bussola, i test standardizzati l’unità di misura, gli obiettivi di efficienza la retorica dominante. Il docente è riconosciuto solo quando diventa il soldatino delle riforme, esecutore disciplinato di procedure già decise altrove. In questa cornice, parlare di libertà educativa o di formazione alla cittadinanza suona anacronistico: conta ciò che è misurabile, e ciò che non si misura non esiste.

3. la scuola non è un bene democratico perché oggi non garantisce condizioni eque a tutti. Le differenze territoriali rimangono enormi: scuole con strutture moderne e laboratori ben attrezzati convivono con edifici fatiscenti e aule sovraffollate. Le risorse si distribuiscono secondo criteri che spesso accentuano le disparità anziché ridurle. In una democrazia, l’uguaglianza dovrebbe valere almeno sul piano dell’istruzione. Ma la realtà mostra il contrario;

4. la scuola non è un bene democratico perché oggi il precariato degli insegnanti è diventato una condizione strutturale. Una parte consistente del corpo docente vive nell’incertezza, con contratti a tempo determinato che rendono difficile costruire relazioni stabili con le classi e con le comunità scolastiche. Una democrazia che considera normale l’instabilità di chi dovrebbe garantire continuità educativa tradisce se stessa;

5. la scuola non è un bene democratico perché oggi il dibattito pubblico che la riguarda è spesso povero, schiacciato su slogan o polemiche contingenti. Con alcune significative eccezioni, non c’è un’arena stabile di discussione, un luogo riconosciuto dove confrontarsi sulle finalità dell’educazione. Eppure, se c’è un bene democratico, è proprio quello che vive di parola pubblica, di conflitto argomentato, di confronto aperto.

Rispondere “no” significa riconoscere che, nella prassi, la scuola è trattata come un bene strumentale, da amministrare secondo le esigenze di bilancio o le richieste del mercato del lavoro, non come uno spazio politico dove si apprende la convivenza democratica.

E allora la domanda deve ritornare con insistenza: la scuola è un bene democratico? Certo, lo è nel suo principio costitutivo, nella sua vocazione, nella sua missione dichiarata. Ma no, non lo è nel modo in cui viene gestita, finanziata, riformata, discussa. È questa contraddizione che bisogna portare alla luce, non per abbandonare l’ideale, ma per rilanciarlo.

Una democrazia che non mantiene aperta l’arena del dibattito sulla scuola è una democrazia che abdica a una parte della propria ragion d’essere. La scuola, infatti, non può essere considerata soltanto come un bene pubblico in senso tecnico — un servizio che lo Stato fornisce a tutti i cittadini. È un bene democratico in senso forte, perché contribuisce a formare le condizioni stesse della vita democratica. Senza una scuola capace di insegnare a discutere, ad ascoltare, a rispettare le differenze, la democrazia si svuota.

Per questo è necessario ribadire che il dibattito sulla scuola non è un optional, ma un dovere civico. Non basta che se ne occupino gli addetti ai lavori: riguarda tutti, perché riguarda la qualità della nostra convivenza. Eppure, quando guardiamo alle politiche degli ultimi decenni, non possiamo non vedere che la discussione è stata impoverita, ridotta a tecnicalità, marginalizzata nei luoghi dove potrebbe incidere davvero.

In questo orizzonte, la questione non è soltanto istituzionale o organizzativa, ma tocca il cuore stesso del patto democratico. Laddove la scuola diventa oggetto di una discussione ridotta e impoverita, si rischia di soffocare le voci di coloro che ne vivono quotidianamente le ingiustizie. È proprio a questo livello che le parole di Judith Shklar acquistano rilievo, ricordandoci che la democrazia si misura anche dalla capacità di dare spazio e ascolto a chi denuncia di essere stato trattato ingiustamente: «L’etica democratica – ha scritto la filosofa statunitense – presuppone che tutti noi possediamo un senso dell’ingiustizia e che esso giochi un ruolo importante nel modo in cui giudichiamo gli altri e la nostra società. La voce della vittima, di chi afferma di essere stato trattato ingiustamente, non può dunque, per principio democratico, essere ridotta al silenzio» [2].

Se il principio democratico impone che la voce della vittima non sia ridotta al silenzio, allora la scuola deve essere pensata non solo come luogo di trasmissione di saperi, ma come arena in cui tale voce possa emergere e contare. Non basta proclamarne l’importanza: occorre tradurre questo principio in pratiche quotidiane di confronto e di riconoscimento, senza le quali il bene democratico che la scuola rappresenta si svuota progressivamente.

E, allora, mi chiedo: la scuola è veramente un bene democratico? La risposta non può limitarsi a un sì di principio. Deve diventare un impegno quotidiano, la decisione di mantenere aperta l’arena del confronto, di non ridurre l’educazione a un meccanismo di produzione di competenze. Ogni volta che questa arena viene chiusa, ogni volta che la parola pubblica viene sostituita da decreti, test, valutazioni calate dall’alto, la risposta reale, nei fatti, è “no”.

È qui che la provocazione mostra la sua utilità: rispondere “no” ci costringe a vedere le contraddizioni, a non accontentarci della retorica, a pretendere coerenza tra i principi dichiarati e le pratiche adottate. È un modo per misurare la distanza che separa l’ideale democratico dalla realtà, e per capire che quella distanza non è incolmabile, ma richiede impegno, vigilanza, responsabilità.

In definitiva, la scuola è un bene democratico solo se la democrazia stessa accetta di farsi carico della sua complessità. Solo se si riconosce che l’educazione non può essere ridotta a una prestazione, ma è il cuore di un’esperienza politica condivisa. Solo se si mantiene aperto lo spazio della parola critica, anche quando disturba, anche quando rallenta, anche quando contraddice le logiche dell’efficienza. Altrimenti, la risposta resta sospesa: la scuola è un bene democratico? Forse.


[1] Quando parlo di studenti illusi, mi riferisco a pratiche in cui viene loro attribuito un potere di giudizio sui docenti. Si tratta di un’illusione per diversi motivi: in primo luogo, perché rovescia il rapporto pedagogico, sostituendo il criterio educativo con un criterio di gradimento; in secondo luogo, perché trasferisce impropriamente sugli studenti una competenza valutativa che richiede strumenti tecnici e prospettive di lungo periodo, non accessibili a chi si trova in posizione formativa; infine perché, dietro la retorica della “centralità dello studente”, si cela un dispositivo che deresponsabilizza le istituzioni e scarica sugli allievi un ruolo che non è né autenticamente democratico né epistemicamente fondato.

[2] Shklar, The Faces of Injustice, 35.

[Questo testo è estratto dal cap. 6 Chi può parlare della scuola? del libro Il ventriloquo. Etica dell’insegnamento al tempo dell’algoritmo, pp.186-190).

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