Una volta sola. Unicità, responsabilità e bellezza dell’essere se stessi nel tempo che non ritorna

Giovanni Scarafile

C’è un momento, nella vita di ciascuno, in cui la domanda su chi siamo smette di essere una curiosità filosofica e diventa una ferita aperta, un’urgenza che non ammette rinvii, una questione da cui dipende non soltanto la direzione dei nostri giorni, ma il senso stesso del nostro esistere; e questo momento può arrivare in forme diverse – nella crisi che segue una perdita, nella stanchezza di una vita vissuta secondo copioni scritti da altri, nel silenzio improvviso che ci coglie quando il rumore del mondo si placa e restiamo soli con noi stessi – ma quando arriva, porta con sé una domanda che è insieme semplice e vertiginosa: sto vivendo la mia vita, o una vita che non mi appartiene?

Questa domanda, che attraversa i secoli e le culture, che risuona nelle tragedie greche come nei romanzi contemporanei, che abita le notti insonni degli adolescenti come le meditazioni dei vecchi, non è un lusso intellettuale riservato a chi ha tempo per pensare, ma il cuore pulsante di ogni esistenza umana, il punto in cui si decide se una vita sarà stata vissuta o soltanto attraversata. Eppure, proprio perché questa domanda ci riguarda tutti così intimamente, rischiamo di non prenderla sul serio, di liquidarla come ovvia o retorica, di rispondere con frasi fatte che non scalfiscono la superficie del problema: “sii te stesso”, “segui il tuo cuore”, “ascolta la tua voce interiore” – formule che suonano rassicuranti ma che, a ben vedere, non dicono quasi nulla, perché presuppongono ciò che dovrebbero spiegare, e cioè cosa significhi davvero essere se stessi, e perché questo essere se stessi sia insieme un diritto da rivendicare, un dovere da onorare, e una bellezza da scoprire.

Per comprendere la profondità di questa questione, dobbiamo partire da un fatto che tendiamo a dimenticare nella frenesia quotidiana, un fatto così evidente da risultare invisibile: ciascuno di noi esiste una volta sola. Non si tratta di una banalità sentimentale, ma di una verità metafisica su cui Enzo Paci nel suo Diario fenomenologico ha saputo fare luce con straordinaria lucidità quando ha scritto:

«Le percezioni passate hanno la loro Einmaligkeit. Non si ripetono. […] Ogni individuo esiste una volta sola. È individuato perché è irreversibile».

Questa parola tedesca, Einmaligkeit, che potremmo tradurre come “unicità” o “irripetibilità”, contiene in sé un’intera filosofia dell’esistenza: noi non siamo unici perché possediamo qualità speciali che ci distinguono dagli altri, non siamo unici perché abbiamo talenti eccezionali o esperienze straordinarie, ma siamo unici perché occupiamo una posizione nel tempo che non può essere reiterata, perché il nostro esistere accade adesso e qui, in questo preciso incrocio di circostanze che non si ripeterà mai più.

Pensate a cosa significa questo, fermatevi un istante a considerarlo davvero: ogni respiro che fate, ogni pensiero che attraversa la vostra mente, ogni parola che pronunciate, accade per la prima e ultima volta nella storia dell’universo. Non c’è replica possibile, non c’è seconda opportunità nel senso assoluto del termine, non c’è un “io” di riserva che viva da qualche parte la vita che noi non stiamo vivendo. Questa consapevolezza può generare vertigine, certo, ma può anche generare una forma particolare di attenzione, una cura per il presente che nasce dalla comprensione della sua irripetibilità. Se ogni istante è unico, allora ogni istante merita di essere vissuto con la presenza di chi sa che non tornerà; se ogni vita è singolare, allora ogni vita porta con sé una responsabilità che non può essere delegata.

Ed è proprio qui che il discorso sull’unicità incontra il tema della responsabilità, un incontro che Eugenio Borgna ha saputo articolare con quella delicatezza che caratterizza tutto il suo pensiero. Per Borgna,

«essere uomini significa essere responsabili dell’esistenza, essere chiamati al bene» (Responsabilità e speranza)

– una frase che potrebbe sembrare un’esortazione moralistica, ma che in realtà nasconde una profonda intuizione fenomenologica. La parola “responsabilità”, infatti, viene dal latino respondēre, rispondere: essere responsabili significa essere chiamati a dare una risposta, e questa risposta non è qualcosa che possiamo evitare o rimandare, perché la vita stessa, con le sue domande silenziose e le sue sfide quotidiane, ci interpella continuamente e attende da noi una parola.

Ma a cosa rispondiamo, esattamente, quando rispondiamo alla vita? Rispondiamo a ciò che siamo stati chiamati a essere, a quella vocazione interiore che non coincide con un mestiere o con un ruolo sociale, ma con la forma singolare che la nostra esistenza è invitata ad assumere. C’è qualcosa in ciascuno di noi – chiamatelo anima, chiamatelo nucleo profondo, chiamatelo come volete – che chiede di essere ascoltato e incarnato, che attende di venire alla luce attraverso le nostre scelte e le nostre parole, che soffre quando viene tradito e fiorisce quando viene onorato. Essere se stessi, in questa prospettiva, non è un lusso né un capriccio, ma un dovere nel senso più alto del termine: il dovere di non sprecare ciò che ci è stato affidato, di non vivere come se fossimo intercambiabili, di non lasciare che la nostra unicità si dissolva nell’anonimato di un’esistenza vissuta per procura.

Borgna ci ricorda che questa responsabilità si manifesta anche, e forse soprattutto, nelle parole: siamo responsabili delle parole che diciamo, di quelle che non diciamo, delle risonanze che produciamo negli altri. Ogni conversazione autentica è un atto di responsabilità, perché in essa mettiamo in gioco non soltanto idee o informazioni, ma noi stessi, la nostra unicità, il nostro modo irripetibile di stare al mondo. E quando tradiamo questa responsabilità – quando diciamo parole false, quando taciamo per paura, quando usiamo il linguaggio per mascherarci invece che per rivelarci – tradiamo insieme noi stessi e coloro che ci ascoltano.

Eppure, proprio quando crediamo di aver compreso cosa significhi essere se stessi, una voce disturbante viene a complicare il quadro, a rovesciare le nostre certezze, a mostrarci un volto dell’autenticità che non avremmo sospettato. È la voce di Simone Weil, la filosofa francese che ha vissuto la propria breve esistenza come una ricerca spasmodica della verità, e che nei suoi Quaderni ha annotato questa frase sconcertante:

«Spogliarsi dell’io. Rinunciare a essere il centro immaginario del mondo. Questo solo è giustizia».

Fermiamoci su queste parole, perché contengono qualcosa di radicalmente diverso da tutto ciò che la cultura contemporanea ci insegna sull’essere se stessi. Weil non ci invita ad affermare il nostro io, ma a spogliarcene; non ci chiede di occupare il centro della scena, ma di rinunciare a essere il centro; non vede nell’autenticità un’espansione del sé, ma uno svuotamento. Come è possibile? Non è forse una contraddizione parlare di essere se stessi e insieme di rinuncia all’io?

La contraddizione è solo apparente, e si dissolve quando comprendiamo cosa Weil intenda per “io”. L’io di cui parla non è la nostra identità profonda, il nostro nucleo autentico, ma quella costruzione immaginaria che ciascuno di noi edifica giorno dopo giorno, quella fortezza di pretese e di paure, di maschere e di difese, che si pone come centro prospettico del mondo e lo deforma a propria immagine. Questo io – l’io che vuole avere ragione, che cerca conferme, che si offende e si difende, che misura tutto in base al proprio vantaggio – non è ciò che siamo veramente, ma ciò che ci impedisce di essere veramente. È il rumore che copre la nostra voce autentica, l’ingombro che occupa lo spazio dove potrebbe abitare la verità.

Spogliarsi di questo io, allora, non significa annullarsi, ma liberarsi; non significa perdere se stessi, ma trovarsi. C’è una bellezza paradossale in questa rinuncia, una bellezza che nasce dalla scoperta che solo chi accetta di non essere il centro diventa realmente insostituibile. Perché finché siamo impegnati ad affermare il nostro io, finché lottiamo per occupare il centro del mondo, siamo tutti uguali nella nostra pretesa, tutti intercambiabili nella nostra avidità di riconoscimento; ma quando rinunciamo a questa pretesa, quando lasciamo andare la presa, allora emerge ciò che in noi è davvero singolare, quella posizione unica che occupiamo nel tessuto dell’essere e che nessun altro può occupare al nostro posto.

E così arriviamo al terzo termine della nostra riflessione: dopo il diritto e il dovere, la bellezza. Perché essere se stessi non è soltanto qualcosa che ci è permesso e qualcosa che ci è richiesto, ma anche qualcosa di bello, di profondamente e misteriosamente bello. Questa bellezza non ha nulla a che vedere con l’estetica esteriore, con l’apparenza o con il successo; è piuttosto la bellezza di una vita che ha trovato la propria forma, di un’esistenza che risuona con se stessa, di una persona che ha smesso di fingere e ha iniziato a essere.

Avete mai incontrato qualcuno che vi ha dato l’impressione di essere pienamente se stesso? Non parlo di persone perfette o realizzate secondo i criteri del mondo, ma di persone che sembrano abitare la propria vita con una naturalezza che non è indifferenza, con una presenza che non è arroganza, con una pace che non è rassegnazione. C’è in queste persone una luce particolare, una qualità di attenzione, una capacità di ascolto che nasce precisamente dal fatto che non hanno più bisogno di difendere un io immaginario, e possono quindi donarsi interamente all’incontro. La loro bellezza è la bellezza di chi ha fatto spazio, di chi ha rinunciato al superfluo, di chi ha trovato il coraggio di essere fragile.

Questa bellezza, però, non è un dono gratuito né un risultato automatico; è piuttosto il frutto di una cura, di un’attenzione quotidiana, di scelte piccole e grandi che orientano l’esistenza verso l’autenticità. Essere se stessi richiede coraggio, perché significa accettare di essere diversi, di non conformarsi, di deludere forse le aspettative altrui; richiede umiltà, perché significa riconoscere i propri limiti, le proprie ombre, le proprie contraddizioni; richiede pazienza, perché il cammino verso se stessi non è breve né lineare, e prevede soste, ritorni, smarrimenti. Ma è un cammino che vale la pena percorrere, perché al suo termine – o forse lungo tutto il suo percorso – ci attende quella forma di gioia che i greci chiamavano eudaimonia: non il piacere effimero, non la soddisfazione momentanea, ma la felicità profonda di chi vive in accordo con la propria natura.

Torniamo ora là dove eravamo partiti, a quella domanda che ci sorprende nelle notti insonni o nei silenzi improvvisi: sto vivendo la mia vita? Dopo il percorso che abbiamo compiuto insieme, forse questa domanda risuona in modo diverso, con una urgenza nuova e insieme con una speranza nuova. Perché abbiamo compreso che essere se stessi non è un privilegio riservato a pochi eletti, ma una possibilità offerta a ciascuno; che non richiede condizioni eccezionali, ma una disposizione interiore che può essere coltivata; che non è un traguardo da raggiungere una volta per tutte, ma un cammino da percorrere giorno dopo giorno.

Abbiamo compreso, con Paci, che la nostra unicità nasce dalla nostra irripetibilità temporale, e che questa consapevolezza deve tradursi in una cura per il presente, in un’attenzione per l’istante che passa e non torna. Abbiamo compreso, con Borgna, che essere se stessi è una risposta che siamo chiamati a dare, una responsabilità che non possiamo delegare, un compito che ci rende pienamente umani. E abbiamo compreso, con Weil, che questa autenticità passa paradossalmente attraverso una rinuncia, uno svuotamento, un decentramento che libera lo spazio per ciò che siamo veramente.

Resta una domanda finale, quella forse più importante: e ora? Ora che sappiamo, ora che abbiamo visto, cosa faremo del tempo che ci è dato? Perché il tempo, come ci ha ricordato Paci, è irreversibile; perché la responsabilità, come ci ha mostrato Borgna, non ammette rinvii; perché la giustizia verso noi stessi, come ci ha insegnato Weil, richiede un atto di coraggio quotidiano. La bellezza di essere se stessi non è un ornamento dell’esistenza, ma la sua verità più profonda; e questa verità attende, in ciascuno di noi, di essere finalmente vissuta.

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