[…]. In un recente post, sosteneva che “esprimere la propria vulnerabilità” sia un bene. Essa, infatti, aiuterebbe a sentirsi compresi e soprattutto consentirebbe ai nostri interlocutori di rendersi conto che le loro azioni non sono prive di conseguenze. In linea di principio, sono d’accordo, ma ho molti dubbi che ciò che lei propone sia attuabile nel mondo del lavoro. Infatti, nei contesti lavorativi, contrassegnati da competitività e dalla prontezza (necessità di risposte immediate a problemi urgenti), esporre la propria vulnerabilità equivarrebbe né più né meno a mostrarsi deboli e, come tali, meglio attaccabili da colleghi sempre agguerriti. Antonio
Caro Antonio,
Grazie per il suo messaggio. Ha mai sentito parlare di Rufus Griscom e Alisa Volkman? Erano gli ideatori di “Babble” un blog dedicato ai genitori. In cerca di finanziatori, decisero di adottare una strategia basata proprio sulla vulnerabilità. Invece di esporre i punti di forza della propria idea, nel corso di un incontro con importanti finanziatori e con grande sorpresa dei loro interlocutori, iniziarono a snocciolare tutte le criticità che avevano incontrato fino a quel momento. Quell’apparente autolesionismo produsse un risultato imprevisto. Quei finanziatori, infatti, si fidarono di loro e il loro blog riuscì a riscuotere 3,3 milioni di dollari di investimenti, prima di essere acquisito nel 2011 dalla Disney. Le sembra sufficiente questo episodio per una apertura di credito nei confronti del ruolo che la vulnerabilità può avere in ambito lavorativo?
Una seconda cosa vorrei dire in merito all’imperativo della tempestività, la “prontezza” di cui lei parla. Nel 1927, Bluma Zeigarnik (nella foto), una ricercatrice lituana, pubblicò uno studio, dimostrando che il nostro cervello, una volta che gli sia dato un compito, è in grado di lavorare in background, risolvendo quel determinato problema anche se apparentemente non ce ne stiamo più occupando. La scienziata aveva notato che, in un ristorante affollato, un cameriere ricordava bene le ordinazioni parzialmente condotte a termine, mentre non ricordava più le ordinazioni concluse. È così, in effetti: le nostre menti rimangono aperte a nuove idee ed intuizioni, perfino se abbiamo lasciato in sospeso un compito.
Concretamente questo significa che non sempre un buon risultato lavorativo passa per la forzosa sincronia con il tempo degli altri. Non sempre, per dare il massimo, occorre essere tempestivi. In alcuni casi, procrastinare è utile e perfino auspicabile. In fondo, un motivo deve esserci se Leonardo, dopo aver iniziato a dipingere la Gioconda nel 1503, la concluse solo nel 1519, dopo numerose interruzioni.
Vorrei sperare che questi esempi siano sufficienti a chiederle una disponibilità all’ascolto in relazione al tema di fondo del suo importante messaggio. Per questo, ho deciso di rendere pubblica la mia risposta. Altri, forse, potrebbero essere interessati e disponibili ad interloquire.
Ho l’impressione che la domanda scaturisca dalla introiezione, certo non consapevole, di un determinato clima culturale su cui, come minimo, occorrerebbe far chiarezza.
Questo clima è costituito dal culto della forza che oggi conosce un successo considerevole, nonostante – o proprio per il fatto che – esso si manifesti secondo una molteplicità di forme da far addirittura dubitare che esse appartengano ad un unico fenomeno. E così, affascinati da esse, noi arriviamo ad essere immersi nel clima della forza adulata fino al punto da introiettarla senza volerlo.
Di fronte a questo scenario, la prima cosa da fare è prenderne coscienza, perché nessuno può veramente dirsi al riparo dalle sue contaminazioni, soprattutto per il fatto che esse sono inavvertite.
Culto della forza significa schiacciare il più debole; crogiolarsi sull’esistenza di differenze dalle quali derivi un pregiudizio nei confronti di una delle parti coinvolte. Significa, ancora, riduzione dell’altro ai bisogni dell’io. Culto della forza è anche aver a tal punto eliminato la possibilità del dissenso da considerare l’esistente l’unica realtà possibile.
Secondo i profeti del pensiero unico, portavoci del culto della forza, l’essere altrimenti equivale nei fatti a negare valore alla capacità di decidere, un lusso che non possiamo concederci, anche perché siamo continuamente pressati dalle urgenze. C’è bisogno – sostengono – di una speciale forma di flessibilità, mentale prima che materiale. Solo così, uniti – ma forse sarebbe meglio dire unificati – evitando ogni genere di confusione, si può decidere ed agire efficacemente.
Temo che le cose stiano in modo molto diverso e che, per molti versi, oggi ci troviamo in una situazione analoga a quella descritta da Chesterton quando in Eretici scriveva «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare le foglie sono verdi in estate» (era da un secolo che volevo fare questa citazione e finalmente ho trovato il contesto giusto!).
Sia detto molto chiaramente: stigmatizzare il culto della forza non equivale a togliere valore alla capacità di decidere. Ciò detto, una cosa è la capacità di decidere; un’altra, il decisionismo, cioè negare la voce degli altri. Una cosa è comunicare; una cosa diversa, il solipsismo di coloro che sono abituati a parlare, a senso unico, trascurando di prestare ascolto agli altri.
Oggi, il rischio di cambiare per conformarsi al mainstream è di perdere se stessi. Quando io “altero” me stesso, pur di sembrare disponibile alla responsività richiesta anche in ambito lavorativo, sto di fatto introducendo una perturbazione il cui effetto è di allontanare me stesso da ciò che intimamente sono. Tuttavia, rinunciare all’individualità essenziale significa perdere la propria anima. Siamo, oggi, a tal punto, inoltrati lungo il sentiero di una tale rinuncia che addirittura l’accennarne fa specie, come se parlassimo di fantasmi. Se le regole del gioco sul luogo di lavoro prescrivono di essere agguerriti e competitivi non è detto che esse debbano essere considerate normali solo perché condivise dalla maggioranza. A quelle regole, soprattutto quando sono avvertite come limitanti una parte della propria personalità, ci si può opporre, iniziando a proporre delle alternative. Vogliamo davvero sacrificare noi stessi al moloch della più sfrenata competitività? Siamo sicuri che ne valga la pena? Siamo sicuri che, invece di accettare quanto ci viene imposto, non sia giunto il momento di sollevarsi contro questo nemico dai mille volti, per cominciare ad affermare una realtà differente?
È mai possibile che il regno dei valori in cui crediamo debba rimanere confinato al mondo delle idee e non invece diventare prassi diffusa nei luoghi e nei contesti in cui operiamo? Che cosa altro dovremmo aspettare per dare inizio alla rivoluzione della mitezza?
La vulnerabilità cui spesso mi riferisco non è una esibizione di debolezza, né la rivincita della morale degli schiavi su quella dei signori. Niente di tutto questo. È semplicemente la rivendicazione dell’integrità dell’umano. Essa è dimensione costitutiva della mitezza. Nella lingua inglese, c’è una espressione che va dritta al punto: “Meek not weak”. Per essere miti, c’è bisogno di una grande forza, che è l’esatto contrario della debolezza con cui – penosamente e senza troppa fantasia – la mitezza viene spesso confusa. Non è un caso che, dal punto di vista della iconologia la mitezza rinvii al leone dalla cui zampa San Girolamo estrae una spina.
Caro Antonio, la ringrazio per la veracità del suo interpellare, che non è stato solo domandare, ma – in un modo che mi sfugge – un chiamare per nome all’interno di questioni dirimenti.
Vorrei allora concludere, provando ad accennare ad un elogio della mitezza, perché è nella misura del suo accoglimento che l’umano in me può germogliare.

Elogio della mitezza
Mitezza è non essere i solisti in funzione dei quali viene eseguita la musica. Significa, piuttosto, riconoscersi parte di una orchestra, in sintonia con gli altri, secondo i ritmi di una armonia prestabilita.
La mitezza è compimento di diverse posture di inclusione. È il leggere il bisogno dell’altro prima che venga espresso; è la scelta della mamma di accompagnare nella benevolenza dello sguardo un figlio che cresce; per chi crede, il far diventare parte della propria storia le carenze altrui, perché è sicuro che, tutto questo, un giorno, sarà inondato da una Luce diversa.
Mitezza è la convinzione di scommettere sulla bellezza del dis-interesse, quel passo indietro rispetto allo stesso diritto all’espletamento dei bisogni.
È il sapersi guardare da un’altra prospettiva, perché come diceva Leibniz e come in tanti hanno testimoniato, “il posto migliore da cui guardare il mondo è il punto di vista dell’altro”.
Mitezza è la fermezza di non volgere altrove lo sguardo quando un altro viene negato, anche se non vi sono direttamente implicato.
Mitezza è rialzarsi, ogni giorno, guardando dritti la meta del nostro incedere. È tendere l’orecchio, quando ti sembra di non sentire più niente. Abbandonarsi nelle braccia di chi ti sostiene, anche se è invisibile. Mitezza è l’intesa che realizzo, seppur a fatica, ogni giorno con chi mi sta intorno, costruendo ponti, che connettano le nostre umanità, perché in fondo è fin troppo facile separarsi dietro ad una barriera.
Mitezza è ciò che mi rende più umano ed insieme la gravità che, riconducendomi costantemente al limite, mi ricorda che mitezza è libertà.
Mitezza sono io, che ti guardo negli occhi. Altro.
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