Quale reazione avremmo se ci dicessero che nostra madre non è veramente nostra madre?
Il punto di partenza del film Il figlio dell’altra della regista Lorraine Lévy non riserva ai protagonisti una domanda diversa. Si immagina infatti che durante la guerra del Golfo del 1991, in un ospedale di Haifa, siano stati erroneamente scambiati due neonati nella culla. Dopo diciannove anni, il risultato di questo errore riserva una sorpresa amara che accomuna una famiglia ebrea ed una famiglia araba.
“Vuoi dire che sono l’altro e che l’altro è me?”, chiede angosciato Joseph, figlio di Orith ed Alon, coppia di genitori ebrei. Non diversa è, prevedibilmente, la reazione angosciata di Yacine, figlio di Leïla e Saïd, mamma e papà arabi.
Lo sguardo della regista si fa carico con delicatezza di mostrare la lenta gestione di questo evento inatteso che, destinato già di per sé a sconvolgere qualsiasi essere umano, diviene ancora più drammatico nella constatazione che l’altro con cui bisogna immedesimarsi è da sempre considerato un nemico.
Come già avveniva nel film Il giardino dei limoni di Eran Riklis, di fronte allo stallo dei protagonisti maschili, intenzionati a far finta di nulla di fronte alla nuova situazione, saranno le madri a prendere l’iniziativa, proponendone un’evoluzione giudiziosa.
Il comportamento delle due donne chiede di essere tematizzato ed appare subito evidente che esso non può essere inteso alla stregua di modelli (per esempio, di genere) che reitererebbero teoricamente quella dicotomia che invece esso si propone concretamente di superare.
Orith e Leïla incarnano una capacità di orientarsi nelle cose che dà corpo ad uno specifico modello di razionalità, distinto dalla autoreferenzialità di una ragione che si ritiene autosufficiente per il fatto di essere monocratica. Prima di qualsiasi azione, esse si impegnano a dare ascolto, immedesimandosi.
Sembra significativo che proprio a Tel Aviv, dove il film è ambientato, viva Marcelo Dascal, uno dei più affermati pensatori contemporanei, fondatore della teoria delle controversie, cioè del modo in cui si può cercare un accordo nonostante la differenza dei punti di partenza. Non a caso, Dascal ha teorizzato l’esistenza di una forma di razionalità mite (soft rationality) in grado di superare le secche della razionalità nuda e pura (hard rationality). La razionalità mite è in grado di udire prima di dire, di fare spazio all’altro ed, in tal modo, di mostrare ciò che è universale, obiettivo costante di ogni ricerca del senso, senza tuttavia trascurare i sentieri della storia, vizio di taluni approcci teorici.
In un tempo di pervasive confusioni semantiche, “Il figlio dell’altra” ci ricorda che la mitezza non è un generico appello alla pacatezza e alla bonarietà. Si tratta, invece, di una virtù che richiede una grande forza, esattamente l’opposto della violenza.