“Secondo me non siamo diventati ciechi,
secondo me lo siamo,
ciechi che, pur vedendo, non vedono”
José Saramago, Cecità
“Quando non c’è visione profetica,
il popolo è sfrenato”
Proverbi 29,18

Do-ho Suh è il nome di uno scultore ed artista koreano, nostro contemporaneo, autore di diverse celebri installazioni. Una, in particolare, ha destato la mia curiosità. È intitolata Statues of Blinded Men Ascending High into the Sky (Statue di uomini ciechi che salgono in alto nel cielo). L’opera allude efficacemente ad uno degli aspetti che ricorrono abbastanza frequentemente nelle relazioni disfunzionali.
L’altro diventa un impedimento per il mio benessere. Non mi aiuta (ed io, a mia volta, non aiuto) a vedere la verità delle cose.
Le relazioni diventano così una pratica di negazione di sé e degli altri ed è difficile accorgersene perché, appunto, si è “con gli occhi chiusi”. Anzi, dirò di più: tutto sembra normale, a parte forse una leggera sensazione di disagio, avvertita qua e là, e scambiata per un malessere passeggero, subito accantonato.
“Siamo nani sulle spalle dei giganti”, osservava Bernardo di Chartres, per alludere al debito che ogni generazione deve a quella che l’ha preceduta. Salire sulle spalle degli altri è un modo per vedere più lontano, ma, come la scultura di Do-ho Suh insegna, può anche essere una iattura. L’eredità ricevuta dalla generazione precedente va comunque verificata criticamente per distinguere il vero dal falso.
Sarebbe abbastanza comodo ed anche un po’ ozioso riservare questo genere di dinamica alle filosofie, vieppiù considerate come una sorta di trastullo per chi ha tempo da perdere.
In realtà, la possibilità di ritrovarsi, volenti o nolenti, in una relazione disfunzionale è qualcosa che può succedere a tutti. Per orientarsi, è necessario esercitare un’attitudine critica, cioè ricominciare a “vedere in prima persona”.
Il ruolo degli altri
Spesso il fallimento nella ricerca della propria consapevolezza è dato dalle delusioni maturate nel confronto con gli altri. Così come vedere un buon esempio può aiutarci ad essere migliori, allo stesso modo vedere un esempio cattivo può farci diventare peggiori.
In linea di massima, le persone deludenti – quelle, per intendersi, che fanno venire il latte alle ginocchia – possono essere suddivise in tre categorie:
1) Le cause perse. Si tratta di coloro che non riescono a concepire un modo di essere diverso dal proprio. Si tratta di persone testardamente e completamente autocentrate. Come un buco nero, sono in grado di assorbire ogni energia di chi hanno di fianco. Un consiglio? Una volta che ci si renda conto di avere a che fare con questa categorie di persone, dismettere i panni da crocerossina. Rassegnatevi, non c’è niente da fare.
2) Gli indifferenti. Si tratta di coloro che non sono affatto interessati agli altri, se non per proprio tornaconto. Questa minima apertura, tuttavia, per quanto interessata, può costituire una occasione per rendersi conto che esiste un modo diverso di vivere, non esclusivamente orientato al perseguimento del proprio interesse individuale.
3) I distratti. Coloro in cui la possibilità di cambiare è reale, perché il livello di attenzione nei confronti degli altri, nonostante sia molto basso, può crescere. I “distratti” non sono del tutto insensibili.
Le domande giuste
Gli altri sono, dunque, importanti per il perfezionamento del sé, ma in definitiva non ne sono responsabili. A questo livello, la principale responsabilità rimane nostra.
In genere, si tende a pensare che sia sufficiente dedicare una maggiore quantità di tempo a se stessi per raggiungere un accettabile livello di auto-consapevolezza. Questo è vero, ma solo in parte. In realtà, può succedere che un costante auto-esame porti ad esiti opposti a quelli desiderati, ingenerando un più alto livello di ansietà o un più basso livello di autostima. Come mai? Spesso noi ci chiediamo perché siamo fatti in un certo modo, alla ricerca delle cause dei nostri modelli di pensiero o di comportamento. Questo tipo di ricerca può essere senza esito. Sarebbe più utile modificare la domanda e passare dal perché al che cosa: che cosa proviamo? Che cosa pensiamo? Cambiando la domanda, noi iniziamo a dare un nome ed un volto alle nostre emozioni o ai nostri vissuti. Dare un nome alle cose è il primo passo per porvi rimedio, se necessario. Cambiare le domande è, inoltre, necessario per evitare che l’introspezione si trasformi in una fissazione su questioni a cui, da soli, non riusciamo a trovare risposta, generando o rinforzando le nostre insicurezze.
Auto-consapevolezza e cecità
Prese le necessarie misure per non essere invischiati in situazioni senza uscita e individuate correttamente le prime domande che danno inizio al percorso di auto-consapevolezza, possiamo iniziare a “vedere meglio”. L’auto-consapevolezza è la capacità di conoscere se stessi (consapevolezza interna) e di essere avvertiti di come gli altri ci vedono (consapevolezza esterna). È ormai acclarato da diverse ricerche scientifiche che coloro che sviluppano una auto-consapevolezza siano in grado di assumere decisioni migliori, avere più soddisfacenti relazioni personali e professionali ed essere più creativi.
Detto così, sembra piuttosto facile. Tuttavia, se la consapevolezza di sé è così importante, perché in pochi ne hanno cognizione e l’hanno sviluppata?
In pratica, succede come la scultura di Do-ho Suh suggerisce: le relazioni, invece di aiutarci a vedere meglio, diventano d’ostacolo all’autoperfezionamento. Alcuni autori hanno parlato di veri e propri blocchi che impediscono alle persone di diventare pienamente consapevoli, elencando tre tipi di cecità:
1) Cecità conoscitiva I nostri preconcetti e le nostre limitate conoscenze ci impediscono di scoprire ulteriori aspetti della realtà. In pratica, siamo convinti di sapere tutto di come vadano le cose nel mondo e una tale convinzione ci fa sentire esonerati dal cercare qualsiasi risposta alternativa. In questo modo, ci precludiamo l’accesso ad altre possibili letture della realtà.
2) Cecità emozionale. Consiste nell’ignorare i propri stati emotivi. È qualcosa che accade quasi sempre inavvertitamente, perché siamo presi dalle nostre attività e non c’è mai il tempo per guardarsi seriamente dentro. A volte, però, la cecità emozionale è una vera e propria scelta che poniamo in essere quando non siamo in grado di dare compimento a ciò che sentiamo dentro. Per esempio, ci sono persone che, pur essendosi rese conto di aver compiuto un errore molti anni prima, nelle loro scelte continuano a reiterare lo stesso errore, proprio in ragione della incapacità a dare corso a ciò che avvertono emozionalmente.
3) Cecità comportamentale. Per capire i propri comportamenti è necessario accedere e dare ascolto al modo in cui gli altri ci percepiscono. Quando però siamo completamente assorbiti da noi stessi, questa osmosi con l’esterno si interrompe. Di conseguenza, rendersi conto del proprio comportamento diventa impossibile.
La meditazione
L’autoconsapevolezza, dunque, non è immune da rischi. Ciononostante, essa non cessa di essere auspicabile. Come procedere, concretamente? Una risposta possibile è di ricorrere alla meditazione, senza essere intimoriti da un termine che, per alcuni, richiama alla mente fachiri seduti su un letto di chiodi…
In termini generali, lo scopo della meditazione è di vedere se stessi per come veramente si è. Un percorso in tre tappe può aiutare.
1) Ridefinire se stessi. Significa inserire le proprie esperienze in un contesto più ampio. Facciamo un esempio. Immaginiamo una persona che sia stata abbandonata dal suo partner. In questo caso, la persona potrebbe fissarsi sulla perdita. Ridefinire questa esperienza significa chiedersi invece che cosa si è guadagnato in questa perdita. È difficile, senza dubbio. Guardare il contesto più ampio significa cominciare a considerare che, forse, nella relazione conclusa non eravamo pienamente valorizzati. In tal modo, gradualmente, inizieremo a guardare noi stessi in un modo inedito.
2) Confrontare e contrastare. Si tratta di considerare la propria situazione (emotiva o comportamentale) in relazione ad analoghe situazioni vissute nel passato per fare emergere analogie e differenze. Si accede, in tal modo, ad una diversa e più articolata concezione di sé.
3) L’esame quotidiano. Consiste nel dedicarsi cinque minuti al giorno per capire che cosa è andato bene e che cosa si può migliorare. Sembra facile. In fondo, sono solo cinque minuti. Ma è veramente così?
Vorrei che le ultime parole di questo post potessero essere di sprone e di incoraggiamento alla vita bella che scaturisce e che, in fondo, è la vita desta.
Faccio mie le parole scritte da P. Louis Lallemant nella sua Dottrina spirituale: “Noi immaginiamo che, allorquando uno si dà al raccoglimento ed alla vita interiore, debba condurre una vita triste e miserabile. In realtà succede invece il contrario”.
ASCOLTA IL PODCAST