Essere integrali

Susannah B., Identity Crisis, 2010

[3]. Capita, a volte, di iniziare a vedere le cose con uno sguardo nuovo, impensato, un po’ come quando dall’ottico provi un paio di lenti colorate che all’improvviso trasformano il tuo sguardo, conferendogli il potere di colorare tutto ciò che vedi.

Sull’umano, si sa, sono state dette un’infinità di cose. Questa sovrabbondanza di risposte, tuttavia, non è mai sufficiente, perché non in grado di saziare la sete di conoscere che, per fortuna, continuiamo ad avere.

The Road to Character è il titolo di un recente libro di David Brooks, un editorialista del New York Times, che prova ad offrirci una nuova prospettiva su ciò che siamo. Oliver Burkenan, che ha recensito sul Guardian il libro, consiglia i lettori a disconnettersi da Facebook pur di trovare il tempo per leggerlo.

Brooks, in realtà, sembra partire col piede sbagliato. Adotta, infatti, una prospettiva manichea: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Adottare una opzione di questo tipo significa vincere facile col rischio di perdere di vista che la realtà e l’umano sono piuttosto «la simbiosi del vero e del falso», come Maritain aveva intuito. Ma tant’è, Brooks va avanti imperterrito: in ognuno di noi – egli scrive – ci sono due componenti. Alla prima componente diamo il nome “Adam I”. Con essa, indichiamo la nostra naturale attitudine a competere con gli altri, a combattere, a fare resistenza, ad afferrare le cose che ci interessano. Si tratta di una dimensione forte, dominante, che non guarda troppo alle conseguenze sugli altri delle proprie azioni, perché è fin troppo concentrata a raggiungere i suoi risultati. C’è, poi, una seconda componente, chiamata “Adam II” che, se paragonata ad Adam I, è una specie di alieno in noi. Adam II, infatti, è la sede della gentilezza, della onestà, della correttezza, della preoccupazione per gli altri prima che per se stessi. Inutile dire che Adam I ha il sopravvento su Adam II.

Una tale sovraordinazione non si verifica soltanto dentro di me, che scrivo, o dentro di voi, che leggete. Accade in tutti, ma proprio tutti (anche il tipo col SUV che vi ha tagliato la strada stamattina) e non è un caso che la nostra società sia così diventata il luogo per eccellenza in cui gli individualismi si confrontano. È vero, la nostra società è diventata la Cultura del Grande Me (The Big Me Culture). Il suo valore di riferimento è l’affermazione di se stessi. In pratica, il dominio di Adam I si traduce nella convinzione che siccome ogni cosa ha un costo, allora puoi ottenere qualsiasi cosa ti prefigga. Alzi la mano chi non ha mai pensato che, in fondo, per farsi strada nella vita è solo una questione di soldi!

“Dio ci ha dato due mani – una per ricevere e l’altra per dare. Non siamo cisterne che accumulano; siamo canali che condividiamo” Billy Graham

Nel clima della Cultura del Grande Me, la realtà, le sue regole, i valori sono stati mercificati e noi – chi più, chi meno – ci siamo adattati a questo clima intrinsecamente commerciale al punto che esso si è inoculato nei gangli vitali dei nostri pensieri. La prima e più immediata conseguenza di questa situazione è che perdiamo di vista tutto ciò che è immateriale. Un esempio? In una ricerca condotta nel 1977, l’80% delle matricole dell’Università della California rispondeva di essere in cerca di una vita piena di senso. Oggi quella percentuale si è ridotta a meno della metà. Nel 1966, il 42% delle matricole sottolineava l’importanza di un aspetto fisico piacevole; nel 1990, quella percentuale era salita al 74%.

Non è solo colpa delle matricole: senza bisogno di andare tanto lontano, infatti, se ci venisse chiesto di indicare le nostre tre priorità nella vita, quale spazio attribuiremmo a ciò che è immateriale? Su, non bluffate…

E così, mentre siamo convinti di vivere nel modo più sgamato possibile, lo sguardo fisso su di noi ci impedisce di vedere l’altro delle cose. Le cose cambiano in meglio – spiega Brooks, facendo felici generazioni intere di inascoltati filosofi – se decidiamo di compiere una inversione ad U, cioè di realizzare una estroversione dello sguardo, iniziando a rivolgere la nostra attenzione ai bisogni degli altri. Come? Mi accorgo degli altri, se provo a silenziare Adam I. Mi rendo conto dei bisogni degli altri, se comprendo di essere prima di tutto io un essere bisognoso. Insomma, detto papale-papale: mi accorgo della vulnerabilità altrui, se mi accorgo di essere vulnerabile.

Dorothy Day

Una cosa del genere è successa a Dorothy Day, la celebre attivista statunitense, famosa per le sue campagne di giustizia sociale in difesa dei poveri. Lo racconta lei stessa nella sua autobiografia The Long Loneliness (Una lunga solitudine, Adelphi). Per lungo tempo, concentrata sui suoi bisogni, la donna combatté contro alcolismo e depressione. Avendo avuto l’occasione di guardarsi dentro integralmente e riconosciuta la propria vulnerabilità, Dorothy Day trovò la forza per prendere in mano la sua vita, spostando il focus della propria esistenza dall’amore narcisistico alla condivisione.

Si tratta di un’inversione vera e propria, per la cui adozione è fondamentale lo sguardo avvertito della vita desta [2].

Nessuno si illuda. Sottrarre spazio ad Adam I significa entrare in una lotta senza quartiere con una parte di noi nient’affatto disposta a lasciarsi spodestare. Un alleato esterno (la famiglia, gli amici, un maestro, il proprio psicologo, perfino la religione) può senz’altro aiutare. E quando la lotta si farà dura – perché succederà, tranquilli, succederà – ricordiamoci di avere lo sguardo fisso sulla meta: ritornare ad essere integralmente se stessi.

 

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