
Il demone è il titolo del poema, scritto nel 1840-1, dal drammaturgo russo Michail Jur’evič Lermontov. In esso si narra la vicenda di un demone che viene strappato alla condanna di errare solitario tra i mondi dall’amore di una fanciulla, Tamara. La ragazza fa di tutto per resistere alle lusinghe del demone, ma c’è qualcosa di questa realtà così lontana e misteriosa che la attrae profondamente. Alla fine, ella cede e bacia il suo tentatore: «Il veleno mortale del suo bacio / Subito entrò nel cuore di Tamara. / Un grido di tormento e di terrore / Il silenzio notturno lacerò»[1], commenta Lermontov.
Il bacio, dunque, l’atto che si fa carico di esprimere la corrispondenza tra la vicenda mondana di Tamara e l’identità extramondana del demone, si converte in negazione della vita stessa della ragazza, la quale cade morta ai piedi del demone. La morte viene così a sancire l’impossibilità di quell’unione innaturale.
Nel finale del poema, la ragazza è redenta dal suo dolore e viene portata in cielo dalle «ali d’oro» di un angelo, mentre il demone viene definitivamente condannato a vagare «tutta la vita per infiniti secoli, / Di amara gioia e amara sofferenza. / Senza attendermi lodi per il male, / E senza ricompense per il bene, / Per sé solo vivere, e nella noia»[2].
La storia dell’incontro tra il demone e Tamara si presta ad una lettura metaforica. Il demone, infatti, è colto nella sua capacità di attraversare i mondi, ma è indifferente perfino al male che può infliggere. Non c’è dunque distanza maggiore rispetto alla concrezione delle vicende vissute degli uomini di quella incarnata dal demone. Egli, potremmo dire, è questa distanza e questa indifferenza. Sul fronte opposto si pone Tamara, che invece rappresenta l’intera complessità della vicenda umana; quella stessa complessità all’interno della quale convergono il dolore per la scomparsa del fidanzato, avvenuta prima dell’incontro con il demone; la paura per un’attrazione difficile da riconoscere, proprio in ragione dell’incommensurabilità tra le due realtà di provenienza dei due esseri.
«Il Demone – ha scritto Bazzarelli – è colui che possiede la conoscenza. Ed egli promette di rivelare l’abisso vertiginoso della conoscenza a Tamara: egli difatti conosce tutto, sente tutto, vede tutto»[3]. La distanza che li separa è la distanza tra la conoscenza e la realtà. Ecco perché non può che far riflettere la storia di questo incontro impossibile. La vicenda dell’incontro impossibile tra il demone e Tamara è qui assunta in chiave metaforica per alludere al rapporto che talvolta può innestarsi tra la filosofia e gli ambiti di cui essa è chiamata ad occuparsi e che, più in generale, rientrano in quel termine onnicomprensivo che è la vita. Filosofia e vita, dunque.
È difficile sfuggire alla sensazione che le raffinate astrattezze del pensiero non sempre si concilino con la immediatezza della vita.
Da un lato, è evidente che la filosofia, intesa latu sensu come ricerca del senso, richieda una presa di distanza dalle situazioni di cui è chiamata a rendere ragione. L’individuazione delle essenze, indici di costanza dei fenomeni, richiede infatti che si sia in grado di porre in stand by la corrente continua che ci lega alle cose. Una distanziazione dall’immediatezza dell’esperire è, pertanto, necessaria perché un atteggiamento riflesso possa dirsi instaurato. D’altro canto, è difficile sfuggire alla sensazione che tale distanziazione si sia in alcuni casi convertita in congedo ed indifferenza rispetto alla vita. Le atmosfere di certa filosofia sono divenute, infatti, così rarefatte che coglierne il legame con il mondo della vita risulta essere un’impresa piuttosto ardua.
Per molti versi, ci troviamo in una situazione simile a quella denunciata da Henri Bergson nel celebre discorso su L’Intuition philosophique, tenuto a Bologna nel 1918: «Non bisogna – diceva il filosofo francese – che la complicazione della lettera faccia perder di vista la semplicità dello spirito». È cioè vero che ogni teoria filosofica viene espressa tramite concetti e che essi possono essere approfonditi in sede critica, rintracciati nella loro più o meno parziale provenienza, commentati ed esplicitati. Tuttavia, se anche, ab absurdo, fossimo in grado di abbracciare in un solo sguardo questa sconfinata massa di materiali, non potremmo certo affermare di aver colto interamente quanto il filosofo di volta in volta studiato ha voluto dire. Si annuncia qui una questione di enorme rilievo ermeneutico, declinabile anche sul fronte della cooperazione interpretativa del lettore. Secondo Bergson, tutto il lavoro che si può svolgere in sede critica può addirittura oscurare il senso autentico di un’opera: «A non tener conto che delle dottrine una volta formulate, delle sintesi in cui esse sembrano abbracciare le conclusioni delle filosofie anteriori e l’insieme delle conoscenze acquisite, si rischia di non scorgere più che vi è di essenzialmente spontaneo nel pensiero filosofico»[4]. A questa essenzialità del senso si perviene per il tramite dell’intuizione: «man mano che cerchiamo di installarci maggiormente nel pensiero del filosofo invece di girargli intorno, vediamo la sua dottrina trasfigurarsi. Dapprima la complicazione diminuisce; poi le parti entrano le une nelle altre; infine tutto si raccoglie in un punto unico, al quale sentiamo che si potrebbe avvicinarsi sempre maggiormente, sebbene si debba disperare di arrivarvi»[5].
Non sempre la segnalazione dei rischi cui può andar incontro un’eccessiva presa di distanza tra filosofia e vita conduce ad una inversione di tendenza di quanto evidenziato.
Forse qualche risultato maggiore può essere prodotto dalla constatazione degli effetti più perniciosi dell’incomunicabilità tra i due ambiti. Si assiste, infatti, sia ad un radicamento dell’idea secondo cui astrattezza e formalizzazione debbono essere considerati necessari antidoti ad un incontro contaminante con la realtà, sia ad una generale caduta della fiducia nella capacità della ragione di fornire un orientamento valido nel mondo. Tale disinvestimento è accompagnato da un’apertura di credito in istanze di altro ordine, come il sentimento, ritenuto l’unico interprete capace di farsi carico della concrezione dell’umano. Il risultato è che due aspetti che dovrebbero interagire per restituire la completezza di ciò che siamo vengono invece ad essere assunti all’insegna di una radicale separatezza.
Note
[1] M.J. Lermontov, Il demone, Rizzoli, Milano 2001, p. 113.
[2] Ivi, p. 95.
[3] E. Bazzarelli, Introduzione a M.J. Lermontov, Il demone, cit., p. 19.
[4] H. Bergson, L’intuizione filosofica in Introduzione alla metafisica, Nicola Zanichelli editore, Bologna 1949, p. 71.
[5] Ivi, p. 72.