Stay positive: valorizzare l’altro nelle relazioni lavorative

In uno dei passi più significativi della sua opera Il principio dialogico, Buber scrive “Divento io nel tu”. A dispetto della loro apparente semplicità, quelle parole possono costituire la base per una vera e propria rivoluzione nell’ambito delle relazioni. Esse, infatti, annunciano un modo nuovo di pensare il soggetto, non più inteso come l’istanza cui tutte le altre devono essere ricondotte quale condizione della loro stessa pensabilità. Le conseguenze di quelle parole non si fermano soltanto alla storia del pensiero. Che cosa succederebbe se provassimo a trasporre la loro valenza al livello delle pratiche, anche di quelle più scomode, come le relazioni lavorative? Insomma, dove porta il ponte tra teoria e pratica?

Nel tentativo di accennare alcune risposte in tal senso, mi sembra di individuare tre percorsi:

1) la differenza tra approccio collaborativo e contrastivo nelle relazioni lavorative;

2) Il coraggio di imparare dagli errori;

3) La ottimizzazione dei conflitti.

 

1. L’approccio “Sì, e…”.

“Avere la puzza sotto il naso” è una espressione nota a molti, presente anche in altre lingue, mediante cui può essere definito l’atteggiamento di superiorità, spesso malcelato, con cui guardiamo gli altri. Succede un po’ ovunque, ma soprattutto nelle relazioni lavorative, pur con significative eccezioni. Questo atteggiamento di superiorità può assumere diverse forme. Una delle più frequenti consiste nell’approccio “Sì, ma”, la tipica risposta data ad una proposta che giunga dal collega che non sopportiamo.

E così, subdolamente annunciato da una apparente convergenza (il “Sì” iniziale), inesorabilmente si fa spazio un elemento contrastivo, segnalato dalla congiunzione ‘ma’, dall’inequivocabile valore avversativo. In tal modo, di opposizione in opposizione, il vero incontro tra l’io e l’altro è continuamente rimandato o, se avviene, è il risultato di un compromesso tra le reciproche istanze identitarie. L’io e l’altro rimangono ben ancorati nelle rispettive identità e l’eventuale accordo è solo una momentanea convergenza. Non c’è una costruzione comune, né ha modo di essere verificato l’annuncio di Buber secondo cui più mi avvicino all’altro, più divento me stesso. Un’occasione persa, in altre parole.

Una dinamica differente è introdotta dall’approccio “Sì, e…”. Si tratta di una dinamica ben nota nell’ambito dell’improvvisazione teatrale, la specifica forma di teatro in cui gli attori non seguono un copione definito, ma inventano il testo, improvvisando.  Facciamo un esempio: se due attori stanno recitando ed il primo pronuncia la frase “Che bella giornata oggi!”, il secondo non può rispondere “Che affermazione priva di senso”, perché così facendo interromperebbe il ritmo della stessa improvvisazione. Dal secondo attore, invece, ci si aspetta una risposta che si innesti sullo stimolo tematico ricevuto dal primo attore. Egli, per esempio, potrebbe dire “È vero. Con una temperatura così mite si potrebbe andare al mare”. L’impostazione “Sì, e…”, in altri termini, consente la prosecuzione dei discorsi a condizione che sia, per così dire, reciprocamente alimentato il fluire delle argomentazioni. A turno, ogni partecipante è chiamato a costruire su ciò che l’altro ha lasciato inespresso.

L’esempio tratto dall’improvvisazione teatrale rappresenta un efficace modo di valorizzazione delle alterità nell’ambito delle relazioni. La sua eventuale adozione, ovviamente, non comporta l’obbligo di confermare necessariamente quanto proposto dagli altri. L’approccio “Sì, e…” rappresenta semplicemente uno strumento per creare legami e contestualmente verificare la nostra attitudine nel confronto con gli altri. Nel caso in cui volessimo esprimere una difformità di parere, dunque, sarà preferibile adottare una modalità tanto pacata quanto diretta, senza ricorrere ad alcun infingimento.

 

2. Il coraggio di imparare dai propri errori

In ambito lavorativo, un altro aspetto da considerare sono i fallimenti, probabilmente la più frequente occasione per chiudersi in se stessi. Commettere errori è frequente. È normale. Capita a tutti. Eppure, se ci pensate, nei confronti degli errori esiste un vero e proprio divieto di cittadinanza, una rimozione.

Sbagliare è considerato sbagliato e riprovevole. Per questo, i propri errori vanno nascosti. In tal modo, è come se si cercasse di veicolare una accezione dell’umano completamente falsata, priva di realtà. Io credo, invece, che si debba avere il coraggio di invertire la tendenza. Non si tratta, ovviamente, di esaltare i propri errori o quelli altrui. Si deve, piuttosto, cercare di eliminare la riprovazione sociale che circonda chi sbaglia. Se crediamo veramente che sbagliando s’impara, allora è arrivato il momento di dimostrarlo. Come? Propongo che, per quanto di nostra competenza, creiamo nei luoghi di lavoro una cornice in cui gli errori possano esprimersi senza creare particolari danni e liberi dal peso delle colpevolizzazioni. Serve un esempio? Basecamp, un’azienda di Chicago, produttrice di software, organizza periodicamente dei “product roasts” meeting. Si tratta incontri in cui gli stessi dipendenti criticano i loro prodotti e discutono collettivamente i fallimenti. La periodicità di tali eventi fa in modo che un evento spiacevole venga metabolizzato all’interno della normale vita dell’azienda e crea un normale clima di fiducia[1] che incoraggia le persone anche a correre dei rischi senza farle sentire individualmente responsabili per gli eventuali fallimenti.

Nell’ambiente di lavoro ragionare dei propri fallimenti significa di fatto riconoscere un valore allo spirito critico e, di conseguenza, il disconoscimento di ogni piaggeria, conformismo ed adulazione dei capi.

 

3. Ottimizzare i conflitti

Un terzo ambito in cui è possibile declinare l’indicazione buberiana “Divento io nel tu” è costituito dai conflitti. Nella comunicazione, una delle forme più comuni di conflitti nasce dalla incomprensione delle reali intenzioni dei nostri interlocutori.

Per capire il più esattamente possibile le intenzioni dell’altro dobbiamo avere accesso alla maggiore quantità possibile di informazioni, a partire da quelle fornite dal linguaggio del corpo. Per questo, se un potenziale conflitto nasce all’interno di uno scambio di email, per esempio, è bene cercare un chiarimento con il nostro interlocutore che passi attraverso altri canali (una telefonata o parlando di persona). Il significato di una parola scritta in un’email può cambiare in seguito ad uno sguardo con il nostro interlocutore. Lo sapevate che, per l’importanza che il contatto oculare riveste ai fini della reciproca comprensione, non conviene litigare con qualcuno mentre stiamo guidando? In quel caso, infatti, le possibilità di capirsi risultano inferiori alla norma, come ricorda il neuroscienziato Stan Tatkin nel video sottostante.

 

Take home message

L’alterità rappresenta un valore, non soltanto dal punto di vista teorico. Nelle relazioni lavorative, far posto all’altro significa: 1) assumere un approccio realmente inclusivo rispetto alle istanze altrui; 2) valorizzare lo spirito critico, mediante il riconoscimento della valenza degli errori; 3) ottimizzare i conflitti, cercando di avvicinarsi il più possibile alle reali intenzioni dei nostri interlocutori.

Decidete voi se sia facile o difficile. Prima, però, conviene ascoltare Seneca: “Molte cose, non è perché sono difficili che non osiamo farle, ma perché non osiamo farle che sono difficili”.

 

Note

[1] Un interessante libro sulla fiducia, che ho letto recentemente è: L. Pierfranceschi, Relazionalità e fiducia. Per un’etica dei legami, Edizioni Universitarie Cortina, Verona 2016.

 

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