Michael Baime è un professore di medicina alla Pennsylvania University. Durante gli anni dell’università, arrivò un momento in cui ebbe dei dubbi sulla sua capacità di continuare un percorso di studi che gli appariva non soltanto lungo, ma piuttosto lontano dai suoi veri interessi. Che cosa fare, a quel punto? Decise che, invece di rinunciare agli studi, avrebbe considerato della professione medica un aspetto che all’inizio aveva sottovalutato: aiutare gli altri. Fu proprio quel cambiamento di prospettiva che gli permise di continuare a studiare e, gradualmente, di veder crescere dentro di sé la sua vera passione: la meditazione. Qualche anno dopo, il Dr. Baime divenne il direttore dell’Ospedale di Philadelphia e nel 1992 creò un programma di meditazione per i malati terminali.
La storia del Dr. Baime è utile perché illustra che la possibilità di perseguire il proprio obiettivo fondamentale dipende anche dalla capacità di individuare i migliori mezzi a disposizione, soprattutto nel momento in cui si è offuscata la strada intrapresa. Nel suo caso, un sentimento di insoddisfazione non era stato sufficiente per fargli cambiare percorso di vita. Lo stazionamento in quella insoddisfazione era invece stata decisiva perché potesse scoprire il suo vero obiettivo.
Sembra una favola, non è vero? A me è sembrata una buona occasione per ragionare su ciò che nelle nostre azioni tiene uniti gli scopi con gli strumenti a nostra disposizione, anche quando essi sembrano assenti, proprio come successo al Dr. Baime.
Nel mio ragionamento, la prima cosa che vorrei proporre è una ricerca Gallup del 2014 in cui si osserva che i due terzi dei lavoratori statunitensi non è motivata e che la maggior parte della gente trova che il proprio lavoro sia noioso. Non è così irrituale, trovare che, almeno qualche volta, il proprio lavoro sia noioso, non è vero? Il vero problema scaturisce quando questo particolare clima che circonda le nostre attività lavorative arriva ad influenzare le nostre future azioni. È in sostanza quanto ha avuto modo di osservare Barry Schwartz, per 45 anni counselor presso il Pennsylvania Swarthmore College: i giovani – dice Schwartz – hanno delle aspettative non realistiche riguardo a ciò che li aspetta una volta usciti dall’università. Essi hanno una specie di sguardo disincarnato che si ripercuote nelle loro vite professionali. In particolare, i giovani adulti vivono schiavi dell’impressione che vi sia un unico e perfetto lavoro che li aspetta e che qualsiasi altra opzione rispetto a questo piano ideale sia una perdita di tempo. È possibile assumere questi dati per cogliere un aspetto più generale che riguarda non solo i giovani americani, ma noi tutti? Mi pare di sì e vorrei formulare la mia ipotesi nel modo seguente: è come se fosse venuto perdendosi il legame tra l’immediato (ciò che siamo) e ciò cui siamo protesi (l’orizzonte stesso delle nostre scelte).

Oggi, il modo di dire “una rondine non fa primavera” viene solitamente utilizzato per significare che, perché qualcosa diventi effettivo, non è sufficiente che si verifichi una sola volta. In tal senso, ad esempio, viene usato da Aristotele nell’Etica nicomachea. Perché la vita di un uomo diventi stabilmente virtuosa non è sufficiente un unico atto, ma piuttosto è richiesta una lunga pratica, una sorta di abitudine, che installi armoniosamente nella vita la pratica della virtù. La via indicata da Aristotele richiede che si sia in grado di prefiggersi degli scopi fondamentali. È in vista, infatti, del loro conseguimento che posso orientare la mia condotta.
Per esempio, se voglio diventare un avvocato o un medico devo aver ben chiaro il mio obiettivo. Avere chiaro il proprio obiettivo fondamentale, infatti, è fonte di ispirazione e risulta particolarmente motivante. Inoltre, perché tutto questo sia effettivo, è anche richiesto che si individuino i mezzi più idonei per raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissi. Secondo lo schema di Aristotele, dunque, occorre avere obiettivi chiari e un buon allenamento quotidiano per conseguire quegli obiettivi.
Ora, ciò che al tempo di Aristotele era naturale oggi è diventato problematico. Tale problematicità è avvertibile primariamente al livello dell’impegno riferito ai mezzi mediante cui cerchiamo di conseguire i fini. Una tale liquefazione comporta la fluidificazione del filo rosso che collega mezzi a fini, con il rischio che, persi di vista i primi, si smarriscano anche i secondi.
Porsi l’obiettivo di diventare un medico è importante. Tuttavia, se non colgo che tale scelta fondamentale diviene concreta solo se e quando riesco ad incarnarla in una serie di piccole scelte (studiare sistematicamente, superare gli esami) che, a loro volta, si concretano in scelte ancora più piccole (non fare tardi la sera, essere puntuale alle lezioni), allora il mio stesso obiettivo fondamentale diviene evanescente.
La motivazione non è una generica atmosfera che circonda le nostre scelte. È la determinazione con cui connettiamo i mezzi ed i fini, rendendo salde e stabili le nostre condotte.
Mi piacerebbe chiedervi qual è la vostra esperienza in termini di motivazione, sia in ambito lavorativo sia nella vita di relazione. A volte, infatti, mettere in comune la propria esperienza può essere di aiuto a molti. Per questo, se vi va di condividere i vostri pensieri, non avete che da commentare questo post.
In conclusione, di fronte ad una scelta importante, rinunciare dovrebbe essere soltanto l’extrema ratio. Occorre, piuttosto, essere in grado di frazionare in piccole porzioni la via che conduce ai nostri obiettivi fondamentali ed iniziare a camminare partendo dalla opzione concreta a noi più prossima. Solo così potrà realizzarsi ciò che Joyce aveva previsto «Domani sarò ciò che oggi ho scelto di essere».
P.S. Se vi è piaciuta la storia del Dr. Baime sappiate che non è una favola. Nel video sottostante, lo potete seguire in carne ed ossa durante una lezione dedicata alla mindfullness, il tema che gli ha cambiato la vita!