Il volume Croce e Resurrezione di Maurizio Ciampa e Gabriella Caramore costituisce un vero e proprio dittico, dedicato alla interrogazione di due eventi specifici della fede cristiana, muovendo dai dipinti Salita al Calvario di Pieter Bruegel e Cena in Emmaus di Rembrandt.
Il tema del libro è profondamente inattuale. Nei confronti di tali questioni, infatti, vige nella mentalità contemporanea una sostanziale rimozione, di recente mirabilmente descritta dall’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini: «La domanda, o piuttosto l’inquietudine, che io sento decisiva è: «Noi siamo condannati a morte fin dalla nascita o siamo chiamati a vivere per una vita eterna e felice?». Ho l’impressione che la domanda sia imbarazzante per la sensibilità contemporanea e quindi sia tendenzialmente rimossa. Rimossa significa che ci si immagina di aver tanto da fare e da pensare per il presente che non si ha tempo per interrogare l’orizzonte […]. Del resto sembra opinione comune che la risposta all’interrogativo, è, in ogni caso, poco influente per il presente che viviamo. Nell’oggi risulterebbero più determinanti e più interessanti l’indice della borsa, le previsioni metereologiche, le statistiche sulla occupazione e tanti altri temi, piuttosto che il nostro destino finale» (Il Sole 24Ore, 18 marzo 2018).
All’interno di tale scenario, che per certi versi richiama il divertissement pascaliano, la scelta di dedicare un libro al senso della morte e della resurrezione di Cristo, oltreché controcorrente, appare non solo coraggiosa ma a priori meritoria.
L’implicita premessa del volume – e della collana editoriale Icone in cui è inserito – è che le immagini vadano prese sul serio. Esse infatti sono titolari di una modalità di significazione diversa dalla parola, laddove tale diversità non va intesa a mo’ di subordinazione. È senz’altro vero che, nell’esperienza comune, siamo soliti far transitare i significati da un medium all’altro, eventualmente cogliendo nel transito lievi sfumature che non inficiano la supposta commensurabilità. Nel libro di Ciampa e Caramore, l’analisi differenziale, in grado di cogliere lo specifico del potere delle immagini di condurre nei pressi dei significati, è condotta in situ, con riferimento alle opere di Bruegel e Rembrandt. Scopriremo così che le immagini alludono, non indicano e, come tali, hanno il potere di spingersi oltre, lasciando intuire ciò che, tramite il visibile, si mostra, nascondendosi.
Riservandomi di condividere gli esiti della lettura del saggio di Maurizio Ciampa in una successiva recensione, mi soffermo ora sul testo di Gabriella Caramore. E, dunque, come viene mostrato Cristo nella Cena in Emmaus di Rembrandt? Gabriella Caramore individua nella pittura dell’artista olandese la capacità di ritrarre quel particolare attimo in cui la presenza del Cristo si converte in un tipo peculiare di assenza. Sono, allora, la particolare configurazione del dipinto, il gioco dei chiaroscuri e l’uso sapiente della luce, a far sorgere la domanda se, per loro tramite, non venga accennandosi una «prospettiva infinitamente aperta di confronto con le antiche Scritture». In tal senso, l’autrice è mossa dall’insoddisfazione nei confronti di alcune, in realtà, non meglio specificate «letture asfittiche» in cui la resurrezione sarebbe intesa come una mera «vivificazione di un cadavere», quando invece, a suo avviso, occorrerebbe andare in ben altra direzione, «non un morto che riappare in mezzo ai vivi, ma qualcosa di vivo che è rimasto dopo il suo passaggio sulla terra». Per questo, l’autrice si chiede «Perché attardarsi nella lettera di una tradizione che non parla più ai cuori e alle menti? Perché non provare a eliminare dall’orizzonte del pensiero parole che non hanno più risposte?».
La ricerca all’interno del testo della Caramore dei presunti imputati di tale fallace interpretazione è destinata a non essere soddisfatta. L’autrice, infatti, sceglie di essere discreta al riguardo. Certo è che il testo sacro usa parole chiare in proposito: «anche nella risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale» (1 Cor 15, 42-44). Il Catechismo, dal canto suo, fa eco alle parole paoline: «La risurrezione di Cristo non fu un ritorno alla vita terrena, come fu per le risurrezioni che egli aveva compiute […]. La risurrezione di Cristo è essenzialmente diversa. Nel suo corpo risuscitato egli passa dallo stato di morte ad un’altra vita al di là del tempo e dello spazio» (CCC 646).
Nello spirito di matura libertà con cui si dialoga con il testo sacro, lo scritto di Gabriella Caramore fa riferimento ad una precisa ermeneutica biblica, quale sua stessa condizione di possibilità. Viene in mente il cardinale Martini che, dopo aver ricordato che di fronte al testo sacro vi sono diversi spiriti, alcuni rigidi, altri scettici, altri liberi, osservava: «Noi siamo chiamati a un atteggiamento né di letteralismo rigido, fondamentalista, che chiude il cuore e lo spirito, né a un atteggiamento razionalista, che alza le spalle e dice “la Bibbia dirà pure questo, ma poi facciamo come vogliamo”; noi siamo chiamati a un atteggiamento di interpretazione, che con libertà di spirito coglie il vero messaggio» (Gli esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Giovanni).
La scrittura di Gabriella Caramore diviene così vicina al tratto di Rembrandt da mutuarne le impostazioni fondamentali. Entrambi alludono, senza indicare; intuiscono, senza riuscire a scorgere chiaramente, proprio perché è la “cosa” a sottrarsi alla visione. Tale imperfetta corrispondenza tra cercante e cercato invita il lettore a mettersi a sua volta in cammino. Per queste ragioni, lo scritto di Gabriella Caramore è inconclusivo (ch’è diverso da inconcludente): esso spinge ognuno di noi all’incessante domandare, alla problematizzazione, all’esposizione personale. Soprattutto, esso ha il merito di far comprendere che la resurrezione, lungi dall’essere un evento perso nella memoria del tempo, riguarda tutti, inevitabilmente e, come tale, richiede la effrazione di quella immanenza fusionale mediante cui siamo, tanto testardamente quanto ottusamente, immersi nelle nostre quotidiane attività.