Nel suo libro We Should All Be Feminists, Chimamanda Ngozi ricorda un episodio di quando aveva nove anni. Nella sua scuola, la maestra annunciò che chi avesse preso il voto più alto ad un compito sarebbe stato nominato coordinatore della classe (class monitor). L’autrice del libro lavorò sodo per ottenere il voto più alto e, in effetti, ci riuscì. Le cose però non andarono come previsto e la bambina fu estremamente sorpresa nel dover constatare che, giunto il momento di attribuire il premio, la maestra scelse il primo arrivato tra i bambini, evidentemente non considerando le bambine parte della gara.
In termini generali, di fronte ad episodi di questo tipo, si tende a collocarli nel contesto storico. È un approccio corretto, ma non sufficiente, dal momento che occorre risalire all’atmosfera comunicativa che ancora oggi continua a riproporre distorsioni ed asimmetrie tra uomini e donne. Un esempio? È mai successo che le immagini delle modelle, pubblicate sulle riviste, ti abbiano fatto sentire inappropriata o fuori contesto? Se è così, anche se può sembrare paradossale, è il segno che le pubblicità stanno funzionando. Lo scopo di molte pubblicità che ricorrono alle immagini delle modelle, infatti, è di perpetuare standard di bellezza che favoriscono le aziende che pagano per pubblicare le pubblicità. Il meccanismo, in fondo, è molto semplice e, per funzionare, deve creare un effetto di emulazione, basato sull’insoddisfazione. È per questo motivo che parlo di un’atmosfera comunicativa, responsabile di agire sull’immaginario ed anche sulla percezione di sé.
Oggi, l’immagine delle casalinghe, utilizzata negli anni Cinquanta e Sessanta, per vendere gli elettrodomestici, è stata trasformata in bellezza patinata, per vendere prodotti di bellezza, cosmetici, diete, ecc.
E così, secondo un meccanismo collaudato, le donne che ritengono di non soddisfare tali standard di bellezza, sono indotte a sentirsi inferiori e spinte all’acquisto dei prodotti. È un circolo vizioso efficace: per essere concreti, nel 1989, le riviste hanno guadagnato 650 milioni di dollari dalle aziende produttrici di cosmetici.
Il ricorso all’idea di uno standard di bellezza, oltre ad essere completamente fasullo e senza alcun fondamento, ha conseguenze più devastanti, relative alle discriminazioni che le donne devono subire rispetto agli uomini. Un aspetto di tale discriminazione riguarda la discrepanza nei salari: solo per fare un esempio, nel 2014, i lavoratori maschi guadagnavano in media il 21% di più delle loro colleghe femmine.
Ci sono, poi, altre conseguenze preoccupanti di questa asimmetria tra uomini e donne, create dalla diffusione del mito della bellezza. Mi riferisco all’anoressia e ad altri disturbi alimentari, causati proprio da queste dinamiche. Altre conseguenze sono meno “materiali” ma ugualmente deleterie, come la mancanza di fiducia e/o la competizione che rischia di svilupparsi tra donne quando sono costrette a rivaleggiare tra di loro pur di conformarsi agli ideali di bellezza.
Combattere il mito fasullo della bellezza significa diventare consapevoli delle forze economiche che la sostengono, ma anche guardare con occhi diversi le parole e le immagini che sono utilizzate per convincerci.
Frasi del tipo “Non devi odiarti al mattino”, usata in una pubblicità, sottilmente sottintendono che odiarsi per aver mangiato qualcosa dovrebbe essere normale nella vita di una donna. È un meccanismo sottile e perfido.
In altri termini, bisogna abituarsi a riconoscere il “non detto” in ciò che ci viene mostrato o detto.
Ovviamente, in questo ambito non siamo all’anno zero. Nel 1994, per esempio, è nato il Global Media Monitoring Project. Si tratta di un progetto di ricerca per la promozione delle pari opportunità nei mezzi di informazione. Nell’arco di vent’anni qualche passo avanti è stato compiuto: la presenza femminile sui media è aumentata dal 7% del 1995 al 21% del 2015. Come ha scritto Monia Azzalini (2016: 583), ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia, “ipotizzando di crescere secondo i ritmi dell’ultimo quinquennio, serviranno più di quarant’anni per raggiungere una visibilità bilanciata fra uomini e donne e realmente rappresentativa della popolazione femminile”
Il cammino è ancora lungo e oggi siamo nella condizione di ripetere quanto scritto da Ibsen “La nostra società è di sesso maschile, e fino a quando in essa non entrerà la donna non sarà umana”.
Letture
Azzalini, Discriminazioni di genere nell’informazione. Aggiornamenti Sociali, 2016, pp. 580-590.
C. Ngozi Adichie, We Should All Be Feminists. Fourth Estate (Harper Collins), London 2014.
grazie di quel che scrivi e di come scrivi. …..sei anche una persona sensibile
circa la pubblicità, sì, subdola, perversa.
con me ha già perso in partenza
auguro alle donne di essere -deste-.
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