Non molto tempo fa, sui social network, è diventato virale l’ironico video del dialogo surreale tra due fidanzati durante una cena di San Valentino. In quel video, sapientemente girato da un gruppo di attori ed oggi visibile su Youtube[1], era praticamente impossibile che si stabilisse un effettivo dialogo tra i due interlocutori. Qualsiasi argomento venisse preso in esame, infatti, era un’occasione per il verificarsi di equivoci a raffica ed il video si concludeva con una voce fuori campo che invitava l’ormai sconsolato ragazzo a cambiare orientamento sessuale[2].
Nei contesti comunicativi in cui siamo quotidianamente impegnati quel tipo di incomunicabilità esperita dai due fidanzati è tutto fuorché assente. Come si reagisce in situazioni simili? In genere, in presenza di un equivoco, moltiplichiamo gli sforzi per cercare di chiarire meglio il nostro pensiero. Succede spesso, però, che il nostro impegno ottenga l’effetto opposto: ogni ulteriore argomento fornito al nostro interlocutore non solo non genera il chiarimento auspicato ma, del tutto indipendentemente dalle nostre migliori intenzioni, aumenta le incomprensioni.
L’etica della comunicazione è quella parte della filosofia che, tra l’altro, si occupa di studiare le modalità comunicative più consone per stabilire una comunicazione sia efficace che rispettosa dell’alterità dei nostri interlocutori[3].
Una maggiore capacità di ascolto?
In genere, una maggiore capacità di ascolto si rivela il rimedio migliore per stabilire una reale dialogo. Al tempo stesso, occorre fare tesoro di ogni difficoltà comunicativa. Essa, infatti, può rivelare la debolezza del modello di comunicazione tacitamente impiegato nei nostri scambi comunicativi.
Quodditas e Quidditas sono due termini risalenti al linguaggio filosofico del Medio Evo. Riferiti alla comunicazione, essi contrassegnano due distinte dimensioni del comunicare. La quodditas indica il contenuto della comunicazione, il “messaggio” che, transitando da un emittente ad un ricevente, rende possibile il fenomeno comunicativo. Il contenuto, allora, costituisce una dimensione data, tangibile, rendicontabile su cui quasi sempre concentriamo tutti nostri sforzi, nel tentativo di decrittarne il senso, risalendo al codice mediante cui quello stesso contenuto è stato codificato. Nel comunicare, però, c’è anche un’altra componente, più immateriale rispetto al contenuto. Si tratta della quidditas, una dimensione immateriale che, proprio per la difficoltà di produrne una rendicontazione, viene spesso dichiarata inesistente. In molti approcci di studio al fenomeno della comunicazione, di quidditas non si parla. Una tale assenza, però, rivela più che altro l’inadeguatezza degli strumenti concettuali con cui consideriamo il fenomeno in sé, piuttosto che un’assenza vera e propria. Ronchi [4] scrive «nel dire vivente (conversare) il significato non è mai dato, non è mai costituito, ma è sempre da fare, è in via di costituzione: c’è sempre un senso che […] la proposizione mostra (dona), ma non dice». Avvicinarsi alla quidditas significa, dunque, essere in grado di fare i conti con l’invisibile. Parlare di una dimensione immateriale ed invisibile potrebbe far pensare che ci stiamo riferendo a qualcosa di magico. È l’esatto contrario, in realtà. Nella sua intangibilità, infatti, la quidditas influenza le relazioni comunicative in modo determinante.
Alla fine dell’Ottocento, il filosofo Kierkegaard era giunto ad una conclusione simile, osservando che «Dappertutto ci si occupa di quello che è il ciò che deve essere comunicato. Di contro, quel che preoccupa me è cos’è il comunicare» [3].
Per addentrarsi all’interno di tale zona misteriosa, sono stati escogitati diversi approcci. Uno in particolare mi sembra efficace, ai fini della nostra analisi. È stato formulato nel 1981 dallo psicologo tedesco Friedemann Schulz von Thun ed ha un nome curioso: modello di comunicazione interpersonale a quattro orecchie.

Se nel modello standard della comunicazione, l’emittente ed il ricevente risultavano connessi nel momento in cui il messaggio transitava dall’uno all’altro, nella teoria delle quattro orecchie ci sono altre dimensioni da considerare.
In altri termini, in uno scambio comunicativo il contenuto non è l’unico fattore cui prestare ascolto. Quando l’emittente comunica, egli può veicolare intenzioni che attengono alla sua relazione con il destinatario della comunicazione. Oppure, egli può per il tramite di ciò che comunica rivolgere un appello all’altro. Infine, può dire qualcosa che rivela qualcosa di sé, proprio mentre comunica.
Da parte sua, nell’atto di decrittare il messaggio, il ricevente dovrebbe essere in grado di cogliere quali livelli sono implicati.
Un’interpretazione univoca da parte del destinatario, cioè orientata solo su uno dei livelli, non solo non permetterà di comprendere adeguatamente quanto trasmesso, ma potrà essere fonte di incomprensioni.
Quando siamo all’interno di uno scambio comunicativo dobbiamo allora essere capaci di avere quattro orecchie che, fuor di metafora, significa riuscire ad accordare noi stessi su ciò che l’altro vuol effettivamente comunicare.
Facciamo un esempio: un marito chiede alla moglie dove siano finiti i calzini.
Secondo il modello messo a punto da Schulz von Thun, la moglie ha a disposizione quattro possibili risposte, a seconda del canale attivato.
1) Riferendosi al contenuto, potrà per esempio rispondere: “I calzini sono nel cassetto”;
2) Riferendosi all’appello: “Te li prendo io”;
3) Riferendosi alla rivelazione di sé, potrà eventualmente cogliere nella domanda del marito una sorta di agitazione e risponderà in modo conforme ad una tale rivelazione: “I calzini sono nello stesso posto dove li hai sempre messi”;
4) Riferendosi alla relazione: “Non sono la tua cameriera, cercateli da solo”.
Questo esempio[4] dimostra la varietà delle risposte possibili, a seconda del livello di ascolto attivato. È compito di ciascuno di noi individuare quale sia, in relazione allo specifico contesto in cui lo scambio comunicativo avviene, la risposta più appropriata.
Si tratta di un obiettivo niente affatto scontato. Il dialogo, in fondo, si crea quando un contatto tra me e l’altro si è stabilito e questo accade in una percentuale di casi molto ridotta, purtroppo. Uno studioso israeliano dei processi comunicativi, Abraham Kaplan, ha coniato il termine di “duologo” [2], per indicare uno scambio comunicativo fasullo, basato sulla coesistenza di due monologhi destinati a non incontrarsi mai. Quante nostre comunicazioni sono duologhi invece di dialoghi?
La teoria di Friedemann Schulz von Thun ha il merito di farci comprendere che la comunicazione è un fenomeno molto più complesso di quanto si possa pensare. A partire da una tale constatazione, ci rendiamo conto che nessuno schema, per quanto articolato, sarà mai in grado di tradurre fino in fondo la complessità della natura umana. La teoria delle quattro orecchie dimostra l’incompletezza della teoria matematica della comunicazione di Shannon-Weaver [6] che, come rilevato in precedenza, identifica la comunicazione con la trasmissione di un messaggio. A sua volta, la stessa teoria delle quattro orecchie risulterà incompleta di fronte alla complessità dell’umano che, dunque, si pone come ideale regolativo, cioè qualcosa verso cui orientare costantemente i nostri sforzi, pur nella consapevolezza che esso non potrà mai essere pienamente perseguito. Incamminarsi verso una tale consapevolezza non è un compito riservato ai filosofi di professione. Si tratta, invece, di un indirizzo che può essere condiviso da chiunque, tenendo conto di almeno due condizioni:
1) La prima condizione è di non andare esclusivamente alla ricerca di soluzioni comunicative prêt-à-porter. Verso questa esigenza, siamo costantemente orientati dalla velocità sempre maggiore e dal tempo sempre minore con cui lavoriamo. Comunicare bene, cercando soluzioni comunicative che possano effettivamente modellarsi sui nostri interlocutori – secondo lo stile di una comunicazione etica – richiede tempo, ma non è una perdita di tempo.
2) La seconda condizione è di non essere parte di quella sempre più comune avversione verso la teoria, che sempre più spesso permea i nostri contesti lavorativi. Come rilevato da Stefania Contesini nel suo bel volume La filosofia nelle organizzazioni[5], tale atteggiamento è basato sull’errata convinzione che sia preferibile, ed in fondo molto più produttivo, dedicare le proprie energie a ciò che viene ritenuto concreto.
Già, ma cosa è veramente ‘concreto’? È forse più concreto considerare un fatto sganciato dal pensiero che lo significa o dalle emozioni che ne consentirebbe la sua qualificazione? Paradossalmente, quando ciò accade – e, purtroppo, accade spesso – si finisce con il «praticare l’astrazione molto più» [1] di quanto si creda.
Riferimenti bibliografici
- Contesini, S. 2016. La filosofia nelle organizzazioni. Nuove competenze per la formazione e la consulenza. Carocci: Roma.
- Kaplan, A. 1994. The life of dialogue. In R. Anderson, N. Cissna, R.C. Arnett (Eds), The Reach of Dialogue. Confirmation, voice and community. Hampton Press, Inc.
- Kierkegaard, S. 1979, Scritti sulla comunicazione. Logos: Roma
- Ronchi, R. 2008. Filosofia della comunicazione. Bollati Boringhieri: Torino.
- Scarafile, G. 2015. Etica e/o efficacia? Le competenze comunicative in prospettiva relazionale. Lulu Enterprises Inc.: Raleigh [N.C.].
- Shannon, C.E., W. Weaver. 1964, The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press: Urbana.
[1] Il video è visionabile al seguente link: https://youtu.be/pjiDci4dmwQ
[2] Generalmente, durante le lezioni di Etica della comunicazione, una parte non numerosa, ma comunque significativa, delle studentesse e degli studenti con cui i contenuti del video sono analizzati, rileva in esso l’esistenza di pregiudizi di genere. Esulando dagli scopi di questo scritto, tale componente non è qui presa in esame.
[3] Per approfondimenti, rinvio a (Scarafile 2015).
[4] L’esempio citato è rinvenibile sul sito: http://www.energiacreativa.com
[5] Il volume di Stefania Contesini La filosofia nelle organizzazioni sarà recensito su Yod Magazine nei prossimi giorni.