
La facilità con cui si ci divide, ci si schiera, ci si contrappone mi lascia ragionevolmente credere che si tratti di un meccanismo naturale, probabilmente un antico retaggio del fatto di vivere in gruppi. L’identità di un gruppo, infatti, deriva anche dal fatto di opporsi ai membri di un altro gruppo. Ma se tale opposizione è comprensibile nel caso degli animali, lo è molto di meno nel caso degli uomini, per le meno di coloro in cui l’umanità sia completamente dispiegata.
Oggi, quando si registra una differenza di opinioni, tanto è facile demonizzare l’altro, quanto difficile fare lo sforzo di provare a pensare alle sue ragioni.
Mettere da parte le proprie ragioni, anche solo momentaneamente, oltre ad essere faticoso, è una opzione che la maggior parte di noi nemmeno considera, perché si rimane fin troppo ancorati alle proprie certezze.
Questa dinamica diventa ancor più pressante, quando si ritiene di aver subìto un torto. Gli esempi abbondano: si pensi a quanto successo negli ultimi giorni con la rinuncia a formare il governo da parte del prof. Conte.
E così, in assoluta buona fede, gli italiani si sono divisi in due schieramenti, a favore o contro. Di quella divisione, emblematici erano gli immancabili hashtag #iostoconMattarella e #ilmiovotoconta.
Come nel più classico degli esempi, gli uni hanno cominciato a demonizzare gli altri (e viceversa) e, come effetto di tale demonizzazione, ad evidenziare ogni genere di problema insito nelle posizioni degli altri. La stazione finale di tale percorso di allontanamento è stata che gli altri erano diventati “avversari”.
Le dinamiche di cui parlo rinviano al rapporto tra certezze e dubbi ed anche alla imprescindibilità ed inutilità del dialogo di cui – questo è il punto! – avrebbero bisogno proprio coloro che ne ignorano le potenzialità.
In questi casi, con molta pazienza, senza indulgere in esagerati scoramenti (il classico latte alle ginocchia, diciamo), è bene esercitare una moral suasion perché i contendenti provino a considerare tutte le posizioni in campo, non soltanto le loro.
2. Le certezze sono importanti. Nessuno lo mette in dubbio. Sono l’ancoraggio necessario per vivere bene, essere saldi, soprattutto nelle difficoltà. Appartiene alla logica dell’essere certi il lasciare aperto uno spiraglio al dubbio. Infatti, proprio per essere certi di essere certi dobbiamo concederci la possibilità di dubitare che ciò in cui crediamo possa non essere vero.
Quando tale possibilità è ignorata o rifiutata, allora si apre la strada dei fondamentalismi o dei fanatismi. Si tratta di termini che spesso designano fenomeni estremi (il terrorismo, per esempio). Tuttavia, va anche detto che esiste un fanatismo delle piccole cose, molto più vicino a noi stessi e alle nostre scelte quotidiane.
Quando ci convinciamo che esistono solo le nostre prerogative, quando il punto di vista degli altri è considerato “inutile”, allora siamo ben incamminati sulla via del fondamentalismo ed il solo fatto di non essere disposti ad ammetterlo è solo una conferma.
Una autentica certezza è in grado di aprirsi al dubbio che, se correttamente perseguito, ci rende liberi.
Vivere, contemporaneamente, la certezza e il dubbio è la condizione richiesta per avviare un dialogo con gli altri, rigettando le radicalizzazioni.
Radicalizzare un confronto significa spingere l’altro ad occupare il polo opposto al nostro. Più ci si incardina nelle proprie certezze, rifiutando i dubbi, più le posizioni degli altri saranno considerate all’interno di una contrapposizione.
Qui avanza una possibile obiezione: aprirsi al dubbio significa rinunciare alle proprie idee? La risposta è: no.
Va anche aggiunto che, per sostenere le proprie idee, non c’è bisogno di diventare tribali. Il passo dalla convinzione legittima al fondamentalismo di sentirsi “dalla parte giusta”, sempre oltre ogni ragionevole dubbio, è molto breve.
Sia nelle relazioni individuali che ad un più ampio livello dividersi è molto semplice e tornare ad essere tribali è questione di un attimo. Ma se le cose stanno così, come si può invertire la tendenza?
Per riavviare il dialogo, occorre riscoprire ciò che è in comune. Questa riscoperta è possibile se, in silenzio, si fa un passo indietro. Un passo indietro rispetto alla convinzione che fare da soli sia sufficiente. Un passo indietro rispetto alla sfiducia verso chi si oppone alle nostre valutazioni.
Occorre abbassare la soglia delle nostre certezze ed aumentare l’apertura di credito nei confronti del dubbio. Anche se può sembrare un paradosso, per vedere oggettivamente le cose, abbiamo bisogno di esercizi di auto-relativizzazione.
3. Un altro errore da evitare è di assimilare la logica di coloro che recano un’offesa.
Quando si è oggetti di provocazione, vere o presunte, reagire d’istinto viene naturale. Ci si trincera dietro le proprie motivazioni, facendo aumentare la distanza che ci separa dall’altro. Dentro questa separazione, la relazione comunicativa con l’altro è pressoché impossibile. Reagire alla provocazione o anche rinchiudersi sdegnosamente nel proprio guscio significa riproporre la stessa logica utilizzata nei nostri confronti. Al di là dei risultati cui la nostra azione può pervenire, l’adozione della stessa logica con cui siamo stati attaccati è una sconfitta.
In tutti questi casi, occorre essere in grado di fare un passo indietro. Un passo indietro rispetto alle provocazioni, rispetto al desiderio di reagire in modo proporzionale all’offesa ricevuta, ecc.
Facendo un passo indietro, separando se stessi dalla immediatezza delle reazioni, abbiamo la possibilità di immedesimarci nel punto di vista dell’altro.
In questo modo, dunque, noi abbassiamo la soglia delle nostre sicurezze e ci apriamo serenamente alla possibilità di aver inteso male o che, addirittura (udite, udite!), l’altro possa avere ragione.
Per certi versi, quanto descritto appare un esercizio ascetico del quotidiano, una attitudine allo svuotamento di sé, kenotica. Piuttosto tristemente, a quanto è dato di vedere in giro, in pochi sono disposti a percorrere questo cammino.
Tutto questo, in fondo, ci pone, ancora una volta di fronte alla più fondamentale delle scelte: essere, umani.
In conclusione, vorrei richiamare alcuni versi di una poesia, I ponti, di Ivo Andrić (1963) in Racconti di Bosnia
Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio. […]
Diventano tutti uno solo e tutti degni della nostra attenzione, perché indicano il posto in cui l’uomo ha incontrato l’ostacolo e non si è arrestato, lo ha superato e scavalcato come meglio ha potuto, secondo le sue concezioni, il suo gusto e le condizioni circostanti.
Quando penso ai ponti, mi vengono in mente non quelli che ho traversato più spesso, ma quelli su cui mi sono soffermato più a lungo, che hanno attirato la mia attenzione e fatto spiccare il volo alla mia fantasia. […].
Così, ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi… Così anche nei sogni e nel libero gioco della fantasia, ascoltando la musica più bella e più amara che abbia mai sentito, mi appare all’improvviso davanti il ponte di pietra tagliato a metà, mentre le parti spezzate dell’arco interrotto dolorosamente si protendono l’una verso l’altra e con un ultimo sforzo fanno vedere l’unica linea possibile dell’arcata scomparsa. E la fedeltà e l’estrema ostinazione della bellezza, che permette accanto a sé un’unica possibilità: la non esistenza.
E infine, tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo. Poiché, tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e al cui confronto tutti i ponti dì questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda.
grazie per articolo e audio, bellissimi davvero. meravigliosi fiori di mandorlo. sono disposta sì, alla kenosis
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Sì, sostanzialmente concordo; il dubbio è alla base della curiosità che porta alle scoperte, le invenzioni, il progresso culturale. Quindi dovremmo sempre tenerlo presente per evitare di essere troppo certi delle nostre idee; ma non esageriamo. E’ vero che solo gli stupidi non cambiano mai idea. Ma è anche vero che non necessariamente cambiare idea spesso sia sintomo di intelligenza o non cambiarla sia sintomo di stupidità. Per esempio in matematica e nella scienza non è così. Una formula è valida sempre, non la si cambia ogni due giorni. Il teorema di Pitagora è sempre quello da più di 2000 anni. Una legge fisica non si cambia da un giorno all’altro. Il dubbio è legittimo, ma riguarda in particolare le discipline umanitarie, dove le proprie convinzioni sono sempre aleatorie, discutibili e, non essendo identificabili con regole certe e matematiche, sono modificabili secondo le circostanze e la convenienza. E neppure il dialogo ed il confronto sono sempre utili e validi. Ci sono persone fanatiche con le quali è del tutto inutile confrontarsi e tentare di dialogare. “Non si può stringere la mano a chi ti porge il pugno chiuso.”, diceva Gandhi. E molto spesso siamo così convinti della bontà delle nostre idee che scartiamo a priori perfino la possibilità di metterle in discussione. Le nostre opinioni sono idee, le idee degli altri sono solo opinioni. Buona serata.
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