I cinque pilastri della comunicazione

 

Solitudine e silenzio sono elementi essenziali alla formazione di uno spirito profondo – o più semplicemente – umano. L’uomo del nostro tempo si ritrova, sovente, a vivere esistenze parallele: una esteriore, in cui appare sicuro di sé, disinvolto, professionalmente serio e comunicativo, ricco di hobby; una interiore, ben nascosta, piena di insicurezze, ansie, inquietudini, dubbi, connotata dall’incapacità di trovare vie d’uscita. A quanti non desiderano rassegnarsi a tale stato di cose e desiderano ricreare unità tra il mondo interiore e quello esteriore, suggerisco un metodo efficace: fare silenzio dentro e intorno a sé” (Martini 2012, 805).

Con la fine delle ferie, i giorni passati sono stati contrassegnati dal ritorno alle attività ordinarie. È, dunque, abbastanza naturale che questo avvenimento sia stato salutato come un ritorno alle ‘fatiche’, contrapposte agli ozi, veri o presunti, delle vacanze.

“Guarda Maria Grazia – osservava al telefono una giovane signora sulla quarantina, seduta di fronte a me in treno – dopo quasi un mese di vacanze, sono proprio stanca. Esagero, dici?”.

In realtà, come rivela questo scorcio di colloquio, non sempre le vacanze costituiscono un allentamento degli impegni. Spesso, dunque, esse si tramutano in impegni di altro tipo. Proprio un esito del genere ci lascia dire che le ferie sono diventate una sorta di condizionamento volontario.

E così, dovendo stare dietro ad innumerevoli impegni anche durante le ferie, il nostro sguardo trova meno occasioni per sollevarsi oltre le cose da fare. Difficilmente esso si solleva oltre l’ordinario, né oltrepassa i tradizionali schemi cui in genere i nostri comportamenti si conformano.

Le vacanze diventano un’altra forma di narcosi acquiescente rispetto al mondo, un’ulteriore tappa di quella immanenza fusionale che ci vede così immersi nel flusso delle cose da non riuscire più a distinguere la differenza di valore tra di esse.

Se la libertà che pensiamo di raggiungere con le ferie si tramuta in nuovo condizionamento, allora parlare di stress da ferie diventa giustificato, per quanto paradossale.

Francesco Bacone (1561, 1626).

Nel Seicento, il filosofo inglese Francesco Bacone aveva elencato una serie di condizionamenti di cui ogni uomo in cerca della propria libertà avrebbe dovuto tener conto.

Il primo dei condizionamenti è costituito dagli idola tribus, cioè la tendenza, per certi versi innata, a fare esclusivo affidamento ai nostri sensi, ritenuti idonei a fornire il giusto orientamento di fronte alle cose. Il secondo condizionamento è rappresentato dagli idola fori, cioè dal fatto che le parole che utilizziamo per comunicare spesso siano equivoche. Non indicando niente di particolare, esse non consentono alcuna autentica comunicazione. Ci sono poi gli idola specus e gli idola theatri, due modi per riferirsi alla inespugnabilità dei pregiudizi, quelli che ci portiamo naturalmente dentro e quelli che desumiamo dalla nostra cultura. Di conseguenza, quando ci rapportiamo agli altri, inavvertitamente proiettiamo su di loro i nostri schemi.

Proprio quest’ultima operazione richiede un supplemento di indagine.

Generalmente parlando, il confronto con gli altri ci fa cogliere alcune differenze, cioè differenti valutazioni delle cose. Tali variazioni, tuttavia, non giungono ad inficiare il nostro modo di essere e quindi sono colte come un arricchimento e guardate con simpatia. Ovviamente, c’è una soglia nell’accettazione delle differenze, superata la quale ciò che all’inizio appariva come un arricchimento si trasforma in una potenziale minaccia. “Certo – direbbero alcuni – una cosa è mantenersi nell’ambito del più e del meno, quando ancora si rimane simili nel modo di vedere le cose; un’altra cosa è quando questi confini invisibili vengono superati”.

Già, che cosa succede quando il confine della modica quantità di differenza è superato? Qui l’altro non conosce più una misura comune che ne permetta l’equiparazione. Non sappiamo più se e in che misura è simile a noi. Lo vediamo, ma non lo riconosciamo. È una presenza sovversiva, cioè che manda sotto-sopra le nostre consuete categorie su cui la nostra vita si è organizzata. È un punto critico ed esso va considerato indubbiamente con attenzione perché è la chiave di volta responsabile dell’instaurarsi di un eventuale differente approccio nei confronti del diverso. I nostri sensi non sono infallibili. Aprire una breccia all’interno di consolidati modi di concepire la vita non solo farebbe entrare una boccata d’aria, ma ci permetterebbe di acquisire un criterio di verificazione dei coefficienti veritativi delle cose, utile prima di tutto a noi stessi.

In fondo, se per tutta la vita hai creduto che una cosa è nera quando invece è bianca, vorresti saperlo o no?

Come puoi acquisire tale nuova consapevolezza se gli unici incontri che ci concediamo sono con persone più o meno simili a noi? Ecco, forse in questi termini, si coglie un po’ meglio quale possa essere il valore di un incontro con una alterità non riconducibile a noi stessi. Nonostante questo, la tendenza più diffusa quando ci troviamo di fronte a qualcuno che non riusciamo ad assimilare è di rinchiudersi a riccio, confermandoci così quelle stesse categorie che avrebbero da guadagnare dall’afflusso di nuovo ossigeno.

Ricapitolando, conduciamo le nostre esistenze all’interno di condizionamenti, ciò che Martini definiva “schemi mentali”. Scaturiscono, da questo, un paio di domande: siamo consapevoli di questo? Se sì, che cosa facciamo per disinnescarli?

I condizionamenti, dicevamo, sono per così dire pre-installati dentro di noi e la loro individuazione non dipende solo da un atto di buona volontà, per quanto essa sia necessaria nel dare avvio al processo di presa di coscienza. Questo processo ha un nome: vita spirituale.

Già nel sentire pronunciare queste poche parole, nella nostra mente si evocano le navate delle cattedrali medievali e i cori di canto gregoriano. In realtà, la vita spirituale è prima di tutto qualcosa di molto umano, di basicamente umano da risultare fondamentale per l’avvio di ogni processo di autoperfezionamento. Martini dava della vita spirituale una definizione molto bella:

l’“agire nelle cose di tutti i giorni senza mirare a dar prova di abilità o di accortezza, senza ricercare la nostra piccola gloria, ma stando semplicemente immersi nell’atto, in quel gesto. Stando lì, pieni di attenzione, come se l’azione di quell’attimo – aprire una porta, scrivere una lettera, accudire un malato, celebrare un rito – fosse sempre l’avventura di una prima volta” (Martini 2012, 829).

Quali forme può assumere oggi la vigilanza, la via che conduce alla meditazione e ad una rinnovata presenza a se stessi?

I cinque pilastri

Alcuni propongono un “ethos minimalista”, cioè il cercare di farsi scivolare le cose addosso, soprattutto quando ci rendiamo conto che esse definiscono oltremodo la nostra identità. In fondo, noi non siamo le cose che possediamo, il lavoro che svolgiamo, le attitudini che abbiamo sviluppato.

Nonostante siamo d’accordo su queste premesse, a molti succede di diventare ostaggi delle cose, del lavoro o delle attitudini.

E allora, se dovessimo pensare un percorso di liberazione dai condizionamenti, da che cosa potremmo partire?

1.    Il peso delle cose

In primo luogo, davvero c’è forse bisogno di liberarsi dalle cose e dalla forza che esse hanno nella definizione delle nostre identità. Ciò che possediamo non costituisce una affermazione riguardo a ciò che siamo come persone. Occorre prenderne coscienza.

2.   Superare i blocchi dell’anima

In secondo luogo, occorre guardare le proprie attitudini, cioè il modo in cui abbiamo fatto maturare le nostre disposizioni. Spesso abbiamo maturato delle posture antalgiche, veri e propri blocchi dell’anima, formatisi in conseguenza di vicende che ci hanno fatto soffrire, per cui cerchiamo in tutti i modi di evitare il ripetersi di quelle sofferenze, progressivamente riducendo i margini delle nostre azioni. Il risultato finale è che ci siamo autoconfinati in ambiti molto angusti.

Fare i conti con le proprie attitudini è possibile, a partire da una semplice domanda: ma io, sono felice?

3.    Ripensare il corpo

In terzo luogo, occorrerebbe ripensare il proprio corpo. Dire che siamo immersi nella cultura del culto del corpo non è più sufficiente. Oggi, in realtà, si assiste ai riti di un carnevale del corpo. Oggi il corpo è al centro della scena, celebrato nella naturalità della sua condizione. Il corpo è il corpo esaltato nelle sue forme perfette o nell’espletamento di alcune sue funzioni più elementari, come il cibarsi. Tale esaltazione subisce poi una opera di nascondimento o, meglio, di mascheramento, abbinandole aspetti glamour o vagamente culturali. Come risultato di questo processo, il corpo è al tempo stesso celebrato e mascherato.

Si pensi agli ormai innumerevoli programmi di cucina. Ovviamente, nel cucinare c’è una componente culturale, così come ci sono rinomate tradizioni culinarie. In ciò cui oggi assistiamo, si ha piuttosto l’impressione che il richiamo alla cultura del cibo sia un espediente per mascherare il culto della fisiologia del corpo. Eccoci, dunque, immersi nei riti di un perenne carnevale del corpo.

Ovviamente, il corpo ha una sua innegabile naturalità. È un dato di fatto piuttosto scontato che, come tale, non richiederebbe alcuna forma di enfasi.

David Le Breton

“L’irrompere della sensazione – ha scritto David Le Breton – spezza la routine della percezione di sé” (Le Breton 2007, XII). Le sensazioni – anche quelle che derivano dal gusto – possono essere una occasione di effrazione della monotonia della vita del soggetto non solo nel senso di introdurre l’ennesima distrazione, ma piuttosto nel senso di aprire la strada verso una dimensione verticale, verso la scoperta di nuovi ambiti del reale. Le sensazioni sono una grande occasione: possono darci accesso a zona ancora inesplorate della sensibilità individuale, possono liberarci dalle consuetudini percettive.

Nei riti del carnevale del corpo cui assistiamo oggi questa opzione a favore del trascendimento dei propri limiti non ha luogo, essendo completamente schiacciata sulla esaltazione della fisiologia, seppur imbellettata fino a voler cercare di confonderla con la cultura che, invece, è un’altra cosa.

C’è una frase di Plessner che mi sembra particolarmente appropriata al riguardo. Scrive l’autore tedesco: “Viviamo percettivamente con i nostri sensi, ascoltando, assaporando, annusando: orientati ad altro e da esso assorbiti. La riflessione interrompe questo flusso, ci fa scoprire la loro natura strumentale e, insieme, la dimensione qualitativa: a questo punto, il mondo biologico risulta insufficiente” (Plessner 2008, 17).

Helmuth Plessner

L’uomo, in altri termini, non è la sua fisiologia. Anzi, la stessa possibilità di parlare della fisiologia richiede una presa di distanza dalla fisiologia. Anche se tutto questo sembra un gioco di parole, la frase di Plessner ci fa capire che nella scala evolutiva che ad un certo punto separa l’animale dall’uomo, si può parlare del soggetto proprio quando si supera il dato meramente biologico. È richiesta una “presenza a se stessi” (Plessner 2008, 15) che dice la differenza tra uomo ed animale.

Nei riti del carnevale del corpo noi assistiamo ad un movimento retrogrado che riporta, per così dire, indietro la lancette della autonomia umana: sedotti dalla costruita esclusività delle situazioni in cui questi riti si compiono, ci illudiamo di aver avuto accesso ad una elitaria sfera di privilegi, quando invece stiamo incautamente precipitando nel pre-umano.

Ecco, dunque, il bisogno di riappropriarsi del corpo che è prima di tutto un aprire gli occhi nei confronti di tutte le falsificazioni cui oggi siamo costretti ad assistere.

4.    Essere più inclusivi

Il quarto passaggio è la richiesta di una maggiore inclusività. Davvero vogliamo passare una vita a ricevere solo conferme dagli altri? E se iniziassimo a confrontarci con le ragioni di chi non è d’accordo con noi?

5.    Una identità oltre il lavoro

Il quinto passaggio è forse quello che ha un maggiore impatto: non lasciare che il lavoro ci definisca come persone. Il lavoro può diventare una àncora che ci tira giù. Ci sono cose più importanti del lavoro: la salute, le relazioni, le passioni, la crescita personale, il nostro contributo alla società. Un buon indicatore di questo auspicato cambiamento di approccio potrebbe essere sostituire la tradizionale domanda “Di cosa ti occupi?” con “Quali sono le tue passioni?

In questo itinerario, come in genere in tutti gli itinerari di cambiamento, dobbiamo mettere in conto i fallimenti, in modo da non rimanerci troppo male quando essi accadono. Ciò che vale è, come dice Martini, non solo lo sguardo verso l’alto, ma lo sguardo verso ciò che c’è davanti. “La fiducia in questa battaglia – osserva Martini – è non scoraggiarsi mai e guardare sempre avanti, spargendo ovunque semi di bene e lasciando alla Provvidenza i germogli e i frutti”.

Le cinque proposte per una vita significativa e per il ripristino del dialogo tra uomo interiore ed esteriore hanno in comune, dunque, la vita desta. Il modo per salutarci è dunque di fare memoria di quanto scritto in uno dei testi fondamentali del buddismo: “Avanza, vigilando” (Mahaparinibbana Sutta 6,7)

 

Riferimenti bibliografici

Le Breton, David. 2007. Il sapore del mondo: un’antropologia dei sensi. Milano: Cortina.

Martini, Carlo Maria. 2012. Le ragioni del credere: scritti e interventi. Milano: A. Mondadori.

Plessner, Helmuth. 2008. Antropologia dei sensi. Milano: Cortina.

 

 

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