In un corso di Esercizi, Carlo Maria Martini parla di tre fondamentali «malintesi dell’Incarnazione», esemplificati dagli atteggiamenti degli apostoli Tommaso, Filippo e Giuda. Il secondo malinteso consiste nell’incapacità di aprire gli occhi e scorgere la grazia di Dio nella propria esistenza, soprattutto quando essa sembra opaca, malinconica e triste.
«Gli dice Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”» (14,8). Qui abbiamo quel desiderio immenso di vedere Dio, vedere il Padre, che esprime un’ansia religiosa profonda. «Gli dice Gesù: “Da tanto tempo con voi io sono, e non mi hai ancora conosciuto, Filippo?» (14,9). […]. Qui il malinteso è la difficoltà di vedere il rapporto tra il mistero di Gesù, come ci appare, e il mistero di Dio. Potrei tradurre altrimenti le parole di Gesù: «Non sai che il Padre è in me, e chi vede me vede il Padre?». Per noi, poi, la frase potrebbe diventare questa: «Non sai vedere attraverso i segni? Non sai aprire gli occhi e vedere nella tua vita Gesù, e in Gesù la presenza e la volontà di Dio?». È la difficoltà di chi non sa aprire gli occhi per scoprire la grazia di Dio nella propria opaca e, talora, anche melanconica, triste esperienza. Questo è l’invito che Gesù ci fa, ora: aprire gli occhi per vedere e capire che afferma con insistenza: «è tanto tempo che sono con te e non sei riuscito a conoscermi». Carlo Maria Martini, Gli esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Giovanni in Le ragioni del Credere, Mondadori, Milano 2011, p. 463.
Mi hanno sempre colpito queste parole di Martini, che gettano luce su interrogativi fondamentali circa la nostra comprensione dell’Incarnazione e del divino nella vita quotidiana. Martini identifica “malintesi dell’Incarnazione”, prendendo ad esempio Filippo, il quale esprime un desiderio profondo di vedere Dio, ma manifesta al contempo una difficoltà di riconoscere la presenza divina già in Gesù e, per estensione, nella sua stessa esistenza.
Il nodo della questione, come Martini evidenzia, è che Filippo, e molte persone come lui, faticano a “aprire gli occhi” per scoprire la grazia di Dio nella loro vita, soprattutto quando questa appare opaca, malinconica o triste. Questo malinteso si manifesta come una difficoltà di vedere la correlazione tra il mistero di Gesù, così come ci appare, e il mistero di Dio.
Vincere l’indolenza
L’atto di “aprire gli occhi” della coscienza è un processo intricato che si svolge in vari strati del nostro essere. Non è qualcosa che si può semplicemente attivare come un interruttore, ma piuttosto un percorso costellato di intuizioni, riflessioni e, talvolta, di significative lacerazioni emotive. Ciò richiede una sorta di combattimento interiore, un confronto costante con l’indolenza che talvolta sembra invadere ogni aspetto della nostra vita.
Immagina l’indolenza come una sorta di foschia densa che permea la mente, rendendo tutto opaco e indefinito. Essa è alimentata dalle distrazioni continue che ci circondano: i social media, l’intrattenimento facile, le pressioni sociali che enfatizzano l’importanza dell’immagine esteriore a scapito della sostanza interiore. Questa foschia impedisce non solo la visione chiara, ma anche la percezione di noi stessi e del nostro posto nel mondo.
Quando iniziamo a fare uno sforzo per penetrare questa nebbia, ci accorgiamo che essa è fatta di strati. Il primo strato potrebbe essere la nostra riluttanza a mettere in discussione le convinzioni comode ma superficiali che abbiamo accumulato nel corso degli anni. Superato questo, potremmo confrontarci con paure più profonde, forse legate all’identità o all’insicurezza. Ogni strato attraversato è come un velo rimosso, permettendoci di vedere con maggiore chiarezza.
Ma questo processo è anche emotivamente dispendioso. Potrebbe richiedere di fare i conti con aspetti di noi stessi che abbiamo a lungo ignorato o soppresso. Potrebbe mettere a nudo le incoerenze tra ciò che professiamo di valore e ciò che effettivamente viviamo. Eppure, ogni ostacolo superato, ogni strato di nebbia penetrato, contribuisce a una sorta di risveglio interiore.
Una volta che la visione diventa più chiara, ci troviamo di fronte alla straordinaria complessità e profondità della realtà che ci circonda. Cominciamo a vedere le connessioni tra le cose, a capire le implicazioni etiche delle nostre azioni e a percepire il mondo non solo come uno scenario esterno, ma come un tessuto intricato di relazioni che include anche noi.
In questo stato di maggiore consapevolezza, anche le questioni etiche assumono una nuova dimensione. Non si tratta più di seguire regole o di conformarsi a norme sociali, ma di vivere in armonia con una comprensione più profonda della realtà. La coscienza, allora, non è più un giudice severo, ma un compagno di viaggio nel percorso verso una vita più autentica e significativa.
Aprire gli “occhi” della coscienza è quindi un viaggio che va ben oltre un mero atto di volontà. È un processo di continua evoluzione e scoperta, un impegno a vivere in modo più profondo e attento. E come ogni viaggio, è costellato tanto di difficoltà quanto di rivelazioni, ma è in questo dinamismo che risiede la sua vera bellezza.
Intuizione e ragione
Dunque, nel contesto di un’apertura più profonda della coscienza, vediamo una trasformazione radicale della nostra percezione e della nostra vita interiore. Diventiamo più attenti ai dettagli, ai simboli, e ai significati nascosti nella trama intricata della vita e delle relazioni. Questo stato di apertura rende la coscienza più ricettiva all’esperienza del divino nella vita quotidiana, permettendoci di scorgere la sacralità in elementi prima ritenuti banali o insignificanti.
Sia la ragione che l’intuizione, componenti fondamentali della coscienza umana, sono arricchite in questo processo. La ragione ci consente di analizzare e integrare queste nuove percezioni, mentre l’intuizione ci apre a una comprensione che supera la logica lineare. Entrambi lavorano insieme per contribuire a un’esperienza di unità e connessione più profonda con la realtà che ci circonda.
La capacità di aprire gli occhi interiori è, in definitiva, non solo una scoperta del divino, ma anche una rivelazione di nuove dimensioni della nostra umanità. È l’invito che Gesù ci fa: di aprire gli occhi per vedere e capire che la grazia di Dio è già presente nel nostro intimo, in attesa solo di essere riconosciuta e accolta. E quando riusciamo a farlo, superando l’indolenza che ci limita, la nostra vita diventa un riflesso più autentico dell’amore e della grazia che incessantemente ci avvolgono.
Postilla
Ho molti amici non credenti o del tutto indifferenti al “fatto” religioso. Mi chiedo, allora: queste considerazioni valgono anche per loro?
Io penso proprio di sì, perché l’apertura della coscienza non è un percorso esclusivo di una fede o una religione particolare, ma riguarda l’essenza stessa dell’esperienza umana. La ricerca del significato, la capacità di vedere al di là delle apparenze, e il desiderio di connettersi con qualcosa di più grande di noi stessi sono elementi universali che attraversano tutte le culture e le credenze. Anche per chi non crede in un Dio personale o in una dottrina religiosa specifica, il processo di “apertura degli occhi” può portare a una comprensione più profonda della propria esistenza e della vita in generale.
Inoltre, l’indolenza e la superficialità sono ostacoli che non discriminano in base alla fede o alla mancanza di essa. Ognuno di noi, indipendentemente dalle proprie convinzioni, può trarre beneficio dal superare questi ostacoli per accedere a una comprensione più ricca e completa della realtà. Infine, questa apertura della coscienza può anche manifestarsi come un senso di meraviglia, gratitudine o connessione con il mondo che ci circonda, qualità che possono migliorare la qualità della vita per chiunque, credente o meno.
Per approfondire

Sui temi di questo post, si potrebbe leggere “Il potere di adesso” (“The Power of Now”) di Eckhart Tolle, pubblicato per la prima volta nel 1997. Il testo è divenuto rapidamente un bestseller e ha guadagnato una grande popolarità a livello internazionale. Il libro si concentra sull’importanza del vivere nel “qui e ora” e sulle implicazioni di questa pratica per la salute mentale, la spiritualità e la percezione della realtà.
Tolle introduce il concetto di “mente egoica” come la fonte principale di sofferenza umana, un meccanismo mentale che ci tiene ancorati a pensieri e preoccupazioni riguardanti il passato o il futuro. Egli sostiene che la maggior parte delle persone è schiava dei propri pensieri e che l’identificazione con la mente crea una barriera alla vera comprensione della realtà.
Il libro suggerisce che la chiave per liberarsi da questa prigione mentale è sviluppare una consapevolezza del momento presente. Tolle offre vari esercizi e tecniche per aiutare i lettori a diventare più “presenti”, quali la meditazione, la respirazione consapevole e la pratica della presenza durante le attività quotidiane.
Uno degli aspetti interessanti del libro è l’idea che vivere nel presente può aprirci all’esperienza del divino. Tolle non si lega a una religione specifica, ma parla di una spiritualità universale che è accessibile a chiunque attraverso la pratica della presenza.
In sostanza, “Il potere di adesso” può essere visto come un manuale pratico per chiunque desideri esplorare una forma di spiritualità che va oltre le tradizioni religiose e dogmatiche, offrendo strumenti per affrontare le sfide della vita con maggiore equilibrio e consapevolezza.
Ti va di condividere le tue osservazioni? Scrivimi!

“è tanto tempo che sono con te e tu ancora dubiti”!?
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La cecità, simbolo poderoso di una incapacità voluta. Solo l’intervento miracoloso del Signore ci apre gli occhi alla vera esistenza!
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